Quarant’anni senza Marshall McLuahn, sociologo nato a Edmonton (Canada) centodieci anni fa, ed è bene interrogarsi sulla grandezza visionaria delle sue intuizioni. Aveva compreso, infatti, con decenni d’anticipo, l’importanza della comunicazione e dei mezzi attraverso cui essa avviene e ci aveva messo in guardia sul fatto che il mezzo è il messaggio. Ciò significa che, a seconda del vettore di conoscenza, anche la sostanza delle informazioni giunge alla cittadinanza in un modo o nell’altro, ponendo al centro del dibattito il bisogno, specie per il fronte progressista, di dotarsi di mezzi di comunicazione autonomi e autorevoli. Aveva intuito, inoltre, l’importanza della diffusione di idee in un’epoca, quella moderna, che sempre più avrebbe visto lo sviluppo dell’economia della conoscenza e l’esaurirsi delle antiche pratiche fordiste, ormai inutilizzabili, almeno su larga scala, anche per la necessità di salvaguardare il pianeta e i suoi delicati equilibri.
Quarant’anni e ci interroghiamo ancora sul significato delle sue parole, sulla forza dei suoi insegnamenti, sull’attualità di una narrazione che andava ben al di là della semplice analisi sociale e riguardava il complesso di una democrazia già allora in affanno.
McLuhan aveva attraversato da protagonista il Secolo breve, le sue ideologie assassine e anche la nascita del modello mediatico, già sperimentato con successo dai regimi totalitari che avevano insanguinato l’Europa nella prima metà del Novecento e reso ancor più efficace dall’avanzare delle tecnologie. Era, pertanto, ben cosciente del fatto che la comunicazione non è neutra e non è per forza democratica; anzi, può essere utilizzata magistralmente, e spesso accade, anche da regimi autoritari e determinati a distruggere ogni forma di confronto e convivenza civile. Poneva, dunque, al centro della sua riflessione il tema della sopravvivenza della democrazia in un contesto globale sempre più delicato ed era alquanto preoccupato per la tendenza di alcuni osservatori a minimizzare l’impatto della comunicazione sulle decisioni, innanzitutto elettorali ma non solo, della popolazione.
Guardava al mondo con straordinaria lungimiranza, si interrogava, comprendeva l’inquietudine del tempo contemporaneo e non si fermava mai, in uno studio attento, meticoloso e costante del nostro stare insieme.
Quarant’anni e la tristezza che ci assale nel constatare che le intuizioni di uno degli osservatori più acuti della nostra società non siano tenute in minima considerazione da parte di chi dovrebbe, invece, riscoprirlo e farne propria la visione. Pochi successori sono stati, difatti, all’altezza, quasi nessuno ha avuto uno sguardo tanto attento e meticoloso sugli elementi che compongono la nostra caleidoscopica realtà ma, soprattutto, non una delle sue conclusioni risulta oggi men che attuale. E forse è proprio per questo che di Marshall McLuhan si parla poco o nulla: ci costringerebbe a riconnettere i fili e a mettere insieme i singoli elementi, fino a renderci conto che il mosaico che compone il nostro mondo, il nostro controverso “villaggio globale”, per usare una sua espressione, è assai diverso rispetto a quello che ci vogliono far credere. Il mezzo è il messaggio, per l’appunto, e il controllo del mezzo determina il messaggio che giunge alla cittadinanza, ponendo i ceti dominanti al di sopra di quelli subalterni e impedendo a questi ultimi di acquisire una coscienza critica adeguata. Un tempo la sinistra denunciava tutto questo ed esisteva proprio per portare avanti coloro che erano nati indietro. Oggi la sinistra non si sa che fine abbia fatto, gli ultimi sono sempre più ultimi e i ricchi e i potenti sono sempre più ricchi e potenti. No, non è un caso che, a quarant’anni di distanza, di Marshall McLuhan e delle sue intuizioni rivoluzionarie non se ne parli più e se ne sia quasi persa la memoria.
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