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Maradona, la grandezza di un uomo non comune. Intervista con Gianni Minà 

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Diego Armando Maradona vivrà per sempre. Dire calcio e dire Diego sono quasi sinonimi. Pochi campioni, infatti, sono stati amati, seguiti, idolatrati e applauditi dai tifosi, al netto della propria fede sportiva, e al contempo detestati dal sistema che da quarant’anni sta opprimendo e spolpando il calcio.
Gianni Minà è, insieme a Marino Bartoletti, il giornalista italiano che lo ha conosciuto meglio, che gli è stato più amico, che gli ha voluto bene nei giorni della gloria e in quelli dell’abisso, quando molti altri hanno,  invece, espresso giudizi, senza sapere e senza capire la complessità di una vita unica nel suo genere.
Di recente, Minà ha dato alle stampe, per Minimum Fax, “Maradona: <<Non sarò mai un uomo comune>>. Il calcio al tempo di Diego”. In quest’intervista racconta, a cuore aperto, il loro rapporto, fra emozioni e ricordi.
Lei è uno dei giornalisti italiani che più e meglio ha conosciuto Maradona nel corso della sua avventura umana e sportiva. Quando è avvenuto il vostro primo incontro? Che persona era fuori dal campo, al di là del mito sportivo che tutti conosciamo? 
Quando venne a Napoli. Io, come tutti i miei colleghi, conoscevamo già la fama di questo piccoletto, che con i suoi piedi storti, era capace di fare magie con il pallone.
Maradona arriva a Napoli nell’estate del 1984, riaccendendo l’entusiasmo e la passione di una città dolente e rassegnata al declino. Si è parlato molto, nelle ultime settimane, di Superleague e edella volontà di dominio assoluto da parte dei club più ricchi. Perché il calcio, nonostante tutto, accende ancora così tanto la passione popolare, al punto da suscitare quasi una rivolta dei tifosi contro il progetto dei “paperoni”?
La storia del nostro Paese è intrecciata con il calcio e il ciclismo. Coppi e Bartali, con le loro schermaglie sportive, “salvarono” la democrazia, i bambini individuavano i loro primi eroi nei giocatori, più o meno famosi. Purtroppo, ma anche inevitabilmente, dopo il 1980, da quando il mondo del calcio è diventato un’azienda che deve produrre guadagno, le regole sono cambiate. Non voglio dire che prima non c’era il denaro a regolare questo sport, il punto è che il calcio, da un certo periodo in avanti, tende sempre più a dipendere dalle regole economiche. I “paperoni”, come li chiama lei, mirano sia ad una fetta di guadagno sempre più ampia, sia a contenere le perdite, per cui non bastano più le solite entrate per fare soldi, quindi si sono dovuti inventare la Superlega per accalappiarne di più, senza pensare a soluzioni alternative. Una cosa è certa: l’ultima cosa a cui pensano è la gioia dei tifosi, al tifo, alla bandiera.


Diego è rimasto tutta la vita molto attaccato alla gente comune. È il campione che andò a giocare un’amichevole nel fango di Acerra per sostenere un bambino malato, si è sempre schierato contro i potenti e ha pagato, per questo, un prezzo altissimo. Come viveva la dicotomia fra il suo essere un’icona globale e il suo non essersi mai davvero allontanato da Villa Fiorito?
In realtà lui, al contrario di troppi, non era per nulla dicotomico, era coerente con quello che pensava. Diego denunciava continuamente le incongruenze del pensiero unico. È per questo che ha avuto la stampa sempre contro.
Diego disse una volta: “Non sarò mai un uomo comune”, che è anche il titolo del suo nuovo libro. Di sicuro non lo è stato. Quanto gli ha giovato questa sua eccezionalità e quanto, invece, lo ha condotto sulla cattiva strada?

Il termine “cattiva strada” fa sorridere, mi ricorda Guareschi…

Tornando alla dimensione popolare del calcio, lei ai tempi di Maradona inventò una trasmissione intitolata “Notte per uno scudetto”, una città intera che si racconta attraverso artisti e protagonisti di varia natura, accomunati dalla passione per il club campione d’Italia. Cosa ha significato per lei quella notte dell’87? Com’era la Napoli di Maradona e cosa ha cambiato nelle dinamiche della città la vittoria di quel titolo?
È stata una vera e propria festa che non potrebbe mai più essere replicata, con la disponibilità di tutti a stare insieme e gioire: la RAI di Napoli che mise a disposizione le strutture, i giocatori del Napoli, tutti, il mondo della canzone napoletana. Un bel ricordo. Una bella Napoli che io amo. Se ci sarà un cambiamento vero in Italia, partirà solo da quella città.
Italia ’90, la celebre semifinale dei Mondiali fra Italia e Argentina. Napoli, continuamente oltraggiata dalle tifoserie avversarie con epiteti irripetibili, si divide a metà fra la sua appartenenza all’Italia e il suo amore viscerale per il campione che l’ha resa grande e adesso le chiede sostegno. Cosa ricorda dell’intervista che Maradona le concesse in esclusiva dopo la partita, quando lei era stato confinato un po’ ai margini della RAI dal rampantismo di alcuni colleghi più giovani? Quanto c’è di letterario in questa storia?
No, semplicemente – e lei saprà di cosa parlo – quando c’è un evento da coprire, è sempre esistita la gara tra colleghi ad arrivare prima. Diego mi aveva promesso un’intervista, ma non ero certo neppure io che me l’avrebbe concessa. E invece è stato di parola. Ancora ricordo la mia incredulità e lo scorno degli altri.
Maradona è stato amato e odiato, idolatrato e discusso. È lecito affermare che avesse una pulsione quasi autodistruttiva? Perché, nonostante l’amore della gente e la stima sincera di alcuni fra i più grandi autori e intellettuali di tutti i tempi, non è riuscito a sconfiggere i suoi demoni, a cominciare dalla cocaina?
Io penso che quando un essere umano è continuamente spoliato dei suoi beni, dei suoi affetti, ogni giorno, e soprattutto dalle persone più disparate, un certo disincanto verrebbe pure ai più forti. “Sconfiggere il demone della cocaina”, come dice lei, è difficile, quasi impossibile e questo lo può chiedere ad altri che ne fanno uso, famosi tanto quanto Maradona, ai quali nessuno ha mai chiesto conto. Chi ne esce fuori sa che dovrà lottare ogni giorno contro una dipendenza (dal cibo, dall’alcool, dalla droga, dalle persone violente) perchè ne rimane il segno a lungo.
Il 25 novembre 2020 Maradona, all’età di sessant’anni, se n’è andato. Una volta Eric Cantona disse: “Fra cento anni si parlerà ancora di Diego”. Quale eredità lascia alle nuove generazioni che non lo hanno visto giocare? Il suo mito, quasi guevariano, resisterà a una società e a un calcio in cui il business sembra prevalere su tutto?
Rimane la figura di atleta positivo, leale e generoso che ha saputo parlare alla gente, che lo ha amato, e al sistema, che lo ha stritolato. Il suo privato è suo e a noi non ci riguarda.

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