Banana Yoshimoto, forse la scrittrice giapponese più popolare in Occidente, ama l’Italia in modo particolare, non ultima la cucina. A Roma venne anni fa per seguire l’uscita dell’edizione italiana del suo primo romanzo, Kitchen, cucina, che ha avuto la sua prima traduzione proprio in italiano ad opera di Giorgio Amitrano, suo grande divulgatore: si deve a lui se i suoi libri hanno avuto negli anni una diffusione straordinaria. Da allora la Yoshimoto ha pubblicato quindici romanzi e venduto sei milioni di copie. A Roma ha scoperto la cucina italiana e ne è rimasta subito entusiasta. E il romanzo del suo esordio, scritto a soli 24 anni, ha un incipit rivelatorio: “Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina”.
Forse per questo nel 1991 quando la Feltrinelli invitò la scrittrice, che di anni ne aveva 27, a Roma per l’uscita del suo primo libro in italiano, pensò bene di organizzare con la stampa un incontro a tavola: l’aperitivo alla “Taverna dei mercanti”, locale trasteverino che rivela la sua origine di fienile settecentesco, quindi la cena dal dirimpettaio “Meo Patacca”, celeberrimo ristorante soprattutto all’estero per i camerieri in costume, che lasciò a bocca aperta la giovane ospite con una scenografia che rimanda alla Roma papalina, ma che soprattutto la conquistò con un piatto di bucatini all’amatriciana di cui la giapponesina destinata a diventare famosa avrebbe poi scritto in un suo romanzo di qualche anno dopo.
Oggi la Yoshimoto, (Banana è un nom de plume, all’anagrafe di Tokyo dov’è nata nel 1964 di cognome fa Mahoko) ha per marito un celebre saggista, un figlio, si dichiara apertamente sostenitrice dei diritti lgbt (nei suoi romanzi molti personaggi fanno parte della comunità gay) dice di scrivere le sue storie quasi per divertimento, l’amore, l’amicizia, la casa, la famiglia sono i suoi temi preferiti, da giovane era appassionata dei romanzi di Stephen King.
Il suo nuovo romanzo, Il dolce domani, (pagg. 102, euro 8,90, traduzione di Gala Maria Follaco, Feltrinelli, 2021) scritto all’indomani della tragedia di Fukushima, è il secondo volume della collana che il Corriere della sera dedica alla grande letteratura giapponese contemporanea: 24 titoli, il primo, L’assassino del commendatore di Murakami Haruki, è andato letteralmente a ruba.
Con questo romanzo l’autrice lascia i suoi temi preferiti e scrive indirettamente della tragedia di Fukushima, il maremoto che dieci anni fa ha distrutto la centrale nucleare con conseguente disastro ambientale che il Giappone stenta ancora a contenere. Scrive l’autrice nella postfazione: “Questo romanzo è dedicato alle persone che, in luoghi diversi, hanno vissuto l’esperienza del terremoto, ai vivi e ai morti”.
E’ la storia di Sayoko, una ragazza di Tokyo che in un incidente stradale perde il fidanzato, morto sul colpo, e lei stessa rimane gravemente ferita. Dopo una lunga e sofferta convalescenza la giovane stenta a ritrovare sé stessa o, meglio, perde il suo “mabui”, qualcosa che per i giapponesi somiglia molto all’anima, e solo con molta sofferenza riesce a riprendere un equilibrio, e può continuare a vivere da sola con il pensiero sempre rivolto a chi ha perso qualcuno e a chi non c’è più. Il riferimento allo tsunami che ha sconvolto il Giappone è appena accennato: ma il libro l’ha scritto immediatamente dopo la sciagura, che colpì la scrittrice al punto di pensare di offrirsi volontaria ai soccorritori. Poi ha preferito scrivere perché “se anche solo una persona dovesse pensare che questo libro è arrivato proprio al momento giusto, se leggendolo riuscisse a riprendere fiato dopo tanto tempo, allora ne sarò felice”. Come la giovane protagonista che si rassegna alla perdita importante che l’ha colpita ma trova il modo di sopravvivere. Un romanzo breve di rara eleganza che conferma le doti narrative di una grande scrittrice, partita dalla cucina dell’infanzia e approdata al dramma comune visto con gli occhi dell’anima.