Sono giovani, colti, brillanti, simpatici. Sono seri, si applicano nello studio, amano il teatro, la musica e la danza. Sono orgogliosi della loro storia e rispettosi delle loro tradizioni, ma vivono l’attualità e nessuna delle questioni, delle domande e delle inquietudini che attraversano questa epoca incerta gli è estranea. Sono i giovani Palestinesi di Roma. Sono stati loro – insieme alla comunità palestinese, l’Associazione per la Pace ed altri movimenti – a costruire la manifestazione che, sabato 15 maggio, ha portato nella centralissima Piazza dell’Esquilino migliaia di persone contro i bombardamenti indiscriminati di Israele sulla Striscia di Gaza e in sostegno alle proteste pacifiche contro gli sfratti delle famiglie residenti nel quartiere Sheick Jarrah a Gerusalemme.
Nella piazza affollata spiccava un folto gruppo di giovani con le bandiere della Palestina e cartelli in italiano, arabo e inglese. Molte ragazze, quasi nessuna delle quali indossava l’hijab, il foulard che tradizionalmente incornicia il volto delle donne musulmane. Dal palco, fra un intervento e l’altro, veniva ripetutamente lanciato l’invito a rispettare il distanziamento e ad indossare le mascherine. Dopo un paio d’ore, si è formato spontaneamente un corteo che è partito su Via Cavour per raggiungere il Colosseo. Di questa manifestazione e delle altre simili svoltesi a Milano, Bologna, Napoli, Torino, Genova e altre città, quasi nessun organo di informazione ha dato notizia.
Maya è la portavoce del gruppo romano dei Giovani Palestinesi. Ha ventuno anni, vive e studia Scienze Politiche a Roma e non ha mai visto la sua terra di origine, la Palestina. Eppure, mi spiega, lei e i suoi coetanei si sentono profondamente Palestinesi, perché l’identità si trasmette di generazione in generazione, anche se si vive a migliaia di chilometri dalla terra di origine.
Il gruppo dei giovani palestinesi di Roma conta su una settantina di attivisti, tutti immigrati di seconda e terza generazione, ma i Palestinesi della diaspora non hanno mai dimenticato chi sono e la loro patria occupata e colonizzata. Questi giovani, da poco affacciatisi all’impegno politico, non corrispondono minimamente allo stereotipo in voga del fanatico islamista o del cosiddetto odiatore antisemita. Sono profondamente laici, vivono la religione non diversamente dalla grande maggioranza degli Occidentali, cioè come un fatto privato, intimo, che non interferisce con la politica e l’organizzazione statuale. Soprattutto, sono portatori delle stesse tensioni etiche e morali della migliore gioventù europea e occidentale. I loro valori sono i diritti umani, sociali e civili, i loro nemici sono il razzismo, il sessismo, l’omofobia, la negazione della ricchezza rappresentata dalle tante diversità che concorrono a formare la comunità umana. Sono molto più vicini a movimenti come Black Lives Matter e ai Friday for Future di Greta Thunberg che alla rappresentazione caricaturale che in tanti vogliono sovrapporgli, quella che li etichetta come fanatici, oscurantisti, imbevuti di dogmi e pregiudizi. Sono, a tutti gli effetti, giovani del XXI secolo, tanto legati alla loro storia e alla loro tradizione, quanto immersi nella modernità e curiosi del mondo che li circonda.
Probabilmente, è proprio la loro consapevolezza e condivisione del presente che li rende tanto arrabbiati nei confronti dell’informazione, del mondo dei media mainstream e anche di quello dei social.
Maya e si suoi amici sono sinceramente indignati per come viene raccontata la situazione della Palestina attuale. Loro sanno che la realtà che viene rappresentata dai media mainstream, pubblici e privati, non corrisponde in alcun modo alla verità. Lo sanno perché comunicano quotidianamente con ragazzi di Gaza e della West Bank, utilizzando i social. Le comunicazioni con Gaza sono rallentate e rese difficili dalle continue interruzioni di corrente, racconta Maya, per cui una conversazione avviata si interrompe bruscamente e, magari, può riprendere solo il giorno dopo. In ogni caso, è evidente la disparità fra quello che si apprende da chi vive la situazione sul campo e chi la racconta da comodi uffici di redazioni distanti e tranquille. Non c’erano inviati italiani a Gaza durante i bombardamenti e quelli che stazionano abitualmente a Gerusalemme nemmeno sanno dove si trovino e come siano fatti i quartieri arabi della città. Le notizie che vengono diffuse in Italia da giornali, telegiornali e talk show sono quasi esclusivamente quelle provenienti da fonti israeliane, spesso militari. Quello che più fa arrabbiare Maya non è tanto la faziosità dell’informazione, quanto la sua assenza di professionalità: un giornalista, dice, ha il diritto di pensarla come vuole, ma avrebbe il dovere di non travisare la realtà, di non censurare e nascondere i fatti. E’ assurdo continuare a presentare sempre i massicci bombardamenti su Gaza o la repressione violenta delle manifestazioni pacifiche a Gerusalemme da parte delle forze armate israeliane come una “risposta”.
I giovani palestinesi romani, comunque, non intendono limitarsi alla critica e alla protesta. Piuttosto, pensano a costruire consapevolezza, a porre il proprio punto di vista all’attenzione generale e per questo sono interessati a lavorare nella società civile. Vogliono far sentire la propria voce nelle scuole, nelle università, nel vasto mondo della solidarietà e dell’associazionismo, di cui si sentono parte. Fanno politica, ma non si appiattiscono su alcun partito, sia palestinese che italiano, sono determinati ad affermare l’autonomia e l’indipendenza del loro movimento, così come il suo carattere laico e lontano da ogni fondamentalismo. Sono tutt’altro che ingenui, sanno di avere tanti nemici, ma questo non li spaventa e nemmeno li intimorisce: Maya parla con il sorriso sulle labbra delle minacce, anche di morte, ricevute via social. Questi giovani palestinesi non hanno paura, credono fermamente nella forza delle loro idee e della democrazia. Quando parli con loro, senti nuovamente forte il profumo dei gelsomini, perché sono i figli di quella primavera araba che credevamo schiacciata nel sangue dalle dittature e dal terrorismo e che, invece, torna a rifiorire. Minacce, censure e violenza non li fermeranno, né a Gerusalemme e a Gaza, né a Roma. Non lasciarli soli è una nostra responsabilità.