I settantadue giorni della Comune di Parigi, correva l’anno 1871, furono il più grande esperimento collettivo della storia dell’umanità. Vennero, ahinoi, repressi nel sangue, in una Francia ancora in preda a ondate reazionarie e reduce dall’amara sconfitta patita l’anno prima contro la Prussia in quel di Sedan. Eppure, quell’esperimento che piacque moltissimo a Marx, al punto che lo definì “la nuova società”, quell’esperimento parla ancora alle nostre coscienze. Certo, è inattuale, irripetibile, forse persino in contrasto con la nostra concezione della democrazia e dello stare insieme; fatto sta che, nella stagione del predominio assoluto e indiscusso delle banche e della cattiva finanza, un maggiore coinvolgimento dei cittadini nei processi decisionali, la riscoperta della deliberazione diffusa e l’accantonamento di logiche esclusive ed escludenti sono indispensabili se si vuole evitare che il sottile filo che tiene ancora insieme il nostro tessuto sociale si spezzi definitivamente.
I settantadue giorni di Parigi recano con sé un sussulto di dignità, l’ingenuità di chi ci ha provato, forse in alcuni casi sapendo persino di non poterci riuscire, il coraggio visionario di provare a cambiare dal basso lo stato delle cose e il triste sapore di una sconfitta dalla quale non ci siamo più ripresi.
Quella disfatta collettiva, quella repressione selvaggia, quel sangue versato un secolo e mezzo fa hanno, infatti, condizionato in maniera decisiva il corso degli eventi, costituendo un monito per chiunque volesse provare a rivoluzionare il modello di convivenza e a renderlo più umano, in netto contrasto con la disumanità oligarchica che ha, invece, caratterizzato la prima metà del Ventesimo secolo, fino a sfociare nelle dittature che hanno condotto nell’abisso quattro paesi e condannato l’intero continente a vivere una guerra devastante.
La Comune di Parigi vive in noi come esempio e punto di riferimento, con il suo tragico epilogo destinato a indurci a riflettere su ciò che sarebbe potuto essere e, purtroppo, non è stato. E forse, se fosse andata a buon fine, avrebbe potuto costituire una via occidentale al socialismo, un’alternativa di gran lunga migliore rispetto al modello sovietico che, oggettivamente, era gravato dalla tara di non essere democratico. Se fosse andata a buon fine, inoltre, la Comune avrebbe potuto indicare la strada: anche per questo molti caporioni, sovrani e oligarchi dell’epoca tirarono uno sciocco sospiro di sollievo quando venne sbaragliata, non rendendosi conto, nel loro atavico gattopardismo, di aver comunque perso perché i tempi stavano cambiando a prescindere dalla loro volontà e i mutamenti sociali avrebbero finito col travolgerli nell’arco di pochi decenni. Solo al crepuscolo della Belle Époque, di fronte a una guerra distruttiva e destinata a modificare per sempre gli assetti geo-politici globali, la stessa aristocrazia che aveva gioito per la conservazione momentanea dei propri privilegi e del castello di ingiustizie su cui fondava la propria smisurata ricchezza si rese conto di aver sbagliato tutto. Peccato che non lo ammise mai, provando in alcuni casi ad accordarsi con i poteri tirannici nascenti ma perdendo comunque buona parte del proprio potere e contribuendo a condannare il Vecchio Continente a un ruolo non più egemone ma subalterno nei confronti della nascente potenza americana.
Il centro del mondo, nel breve volgere di quattro decenni, si spostò definitivamente e alla vecchia Europa avvizzita non rimasero che i suoi tormenti.
Il sangue della Comune ci parla ancora: di avidità, profitto, ingiustizie, disuguaglianze, redistribuzione della ricchezza e democrazia nel suo senso più alto e nobile. È una lezione che non abbiamo imparato e, forse, non impareremo mai.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21