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Israele: le armi tacciono ma il conflitto rimane

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Una fragile tregua ha posto fine all’ennesima esplosione di violenza nel conflitto infinito che da quasi un secolo dilania il territorio dell’ex Mandato britannico della Palestina. Anche questa volta il sole sorge su un paesaggio di macerie, costellato di lutti che alimentano l’odio instillato nella carne viva dei due popoli da una lunga storia di abusi, di discriminazioni, di crimini contro l’umanità. Dopo 10 giorni di fuoco, dopo il lancio di 4.000 razzi di Hamas e dopo i massicci bombardamenti dell’aviazione israeliana che hanno polverizzato centinaia di edifici, sventrato le strade, seppellito intere famiglie con i loro bambini, cosa rimane, quali prospettive per il futuro? I leader di Hamas sono convinti di aver inflitto una lezione ad Israele, a difesa di Gerusalemme e della libertà di accesso ai luoghi sacri, Nethanyahu, invece, pretende di aver inflitto una lezione ad Hamas, poiché fra gli oltre 250 palestinesi morti ci sarà pure qualche loro ufficiale. In realtà non ha vinto nessuno, hanno perso tutti, anche se il bilancio delle sofferenze grava quasi per intero sulla stremata popolazione di Gaza. La cosa più sconvolgente è che dietro il silenzio delle armi non si intravede alcun percorso che possa portare al superamento delle ragioni che alimentano il conflitto.

Il 17 maggio i segretari generali delle tre confederazioni sindacali, i presidenti di ANPI, ACLI, ARCI, LEGAMBIENTE e del Gruppo Abele-Libera, hanno indirizzato una lettera ai partiti (esclusi i sovranisti), esortando gli attori politici italiani a non voltarsi dall’altra parte e a prendere atto della natura, delle cause e della dimensione reale del conflitto. Esortazione tanto più necessaria dopo le acritiche manifestazioni di sostegno ad Israele espresse da tutto l’arco politico italiano quando sono cominciate le ostilità. La lettera denunzia: “il protrarsi di una situazione irrisolta, con un popolo che ha ottenuto il diritto di vivere in un proprio Stato sovrano ed indipendente, Israele, ed un altro popolo, che non ha uno Stato, e vive sotto occupazione, governato da un’autorità con poteri limitati e dipendente dalla forza occupante – osservando che – In queste condizioni i palestinesi, vivono quotidianamente ed in ogni momento della loro vita vessazioni, umiliazioni, discriminazioni, restrizioni delle libertà, demolizioni ed espropri”. La lettera rammenta le origini del conflitto, il non attuato piano di ripartizione in due Stati della Palestina delineato dall’ONU con la risoluzione 181 del 1947, richiama gli accordi di Oslo del 1993/1995 che, dopo l’assassinio di Rabin sono finiti su un binario morto. Gli scriventi chiedono che si dia senso e sostanza all’impegno per la pace rompendo uno status quo intollerabile ed indicano come decisiva una grande iniziativa europea per il riconoscimento dello Stato di Palestina.

Questa iniziativa, che accomuna le grandi organizzazioni sindacali, e le principali associazioni della società civile italiana custodi dei valori della Costituzione, è di grande importanza perché, di fronte all’afasia della politica italiana, può essere lo strumento per accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica e provocare una svolta; tuttavia la proposta avanzata, anche se utile, è insufficiente. Attualmente sono 138 gli Stati che riconoscono lo Stato palestinese ed i principali paesi europei riconoscono comunque uno status diplomatico alle rappresentanze palestinesi, ma tutto questo non ha modificato in nulla la situazione sul campo. Le gravi e sistematiche violazioni del diritto internazionale da parte di Israele sono ampiamente documentate, così come è ampiamente documentato il terribile impatto in termini di sofferenza umana di tali violazioni. Sono 54 anni che Israele occupa illegalmente la Cisgiordania e Gerusalemme est, mentre la striscia di Gaza, seppur sgomberata dall’esercito israeliano e dai coloni nel 2005 continua ad essere sostanzialmente sotto il controllo israeliano. Il rapporto recentemente pubblicato da Human Rights Watch (A threshold crossed), documenta come, fin dall’inizio Israele ha progettato di mantenere per sempre il controllo dei territori occupati in seguito della guerra dei sei giorni. Nel c.d. piano Drobles (1980) si affermava testualmente: “non ci deve essere alcuna ombra di dubbio della nostra intenzione di mantenere per sempre il controllo di Giudea e Samaria attraverso l’installazione di insediamenti in queste aree”. Di conseguenza dal 1967 sono stati realizzati 280 insediamenti nella Cisgiordania, che hanno frammentato la popolazione palestinese (secondo B’Tselem, associazione israeliana per i diritti civili), in 165 isole territoriali non contigue. Se consideriamo tendenzialmente perpetuo il controllo dello Stato di Israele sui territori occupati, allora diventa evidente che è stata creata una situazione di apartheid, simile a quella che a suo tempo fu contestata al Sudafrica, poiché in un medesimo territorio in cui convivono due gruppi etnici, uno dei due esercita una forma di dominio sull’altro, escludendolo dal godimento dei diritti di cui usufruiscono i membri del gruppo dominante. Nell’area che va dal Mediterraneo al fiume Giordano, vivono circa 6.8 milioni di ebrei israeliani e 6.8 milioni di palestinesi, in condizioni fortemente differenziate per gruppo etnico. La popolazione palestinese è soggetta a forme di discriminazione che variano d’intensità a seconda dei luoghi e della situazione, godendo di uno status diverso a seconda che abbiano la cittadinanza, siano residenti a Gerusalemme est, o nell’area A e B della Cisgiordania, o nell’area C, oppure a Gaza. Per questo il rapporto di HRW osserva che è stata varcata una soglia e che la politica di discriminazione dei palestinesi, nei casi estremi, integra i crimini di apartheid e di persecuzione. In un rapporto pubblicato nel 2017 la Commissione Economica e Sociale delle Nazioni Unite per l’Asia Occidentale (ESCWA), alla luce delle informazioni raccolte nell’espletamento del suo mandato ha accertato come “Israele sia colpevole di applicare un regime di apartheid contro la popolazione palestinese.” Lo Stato di Israele non ha mai accettato alcuna delle numerose raccomandazioni che gli sono state fatte dal Consiglio dei Diritti umani dell’ONU e ne ha ostacolato l’attività, fino al punto che il 14/12/2008 il Relatore speciale incaricato di monitorare la situazione dei diritti umani nei territori occupati, dopo essere atterrato a Tel Aviv in visita ufficiale fu arrestato e deportato.

Il regime di apartheid in Sudafrica fu rovesciato e si giunse ad una soluzione pacifica, senza spargimento di sangue, grazie alle sanzioni ultraventennali della comunità internazionale. Con la stessa intransigenza si deve denunciare il regime di apartheid instaurato dallo Stato d’Israele e adottare le sanzioni adeguate se si vuole costruire una soluzione pacifica al conflitto.


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