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Israele, la fragile tregua e le incognite per il futuro

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Dopo 11 giorni di guerra, 230 morti palestinesi, 12 israeliani, oltre 4000 missili lanciati da Hamas su Israele, in un’escalation di violenza e sangue che non trova precedenti neppure nel conflitto del 2014, è stato dichiarato da Gaza e Gerusalemme un cessate il fuoco “reciproco e simultaneo” a partire dalle prime ore di venerdì.
Le pressioni internazionali hanno, per ora, convinto le parti ad accettare la mediazione dell’Egitto.
Ma quanto sarà efficace e rispettata la tregua?
La storia dei negoziati tra Israele e Palestina è tra le più dolorose spine del Medio Oriente.
Tra le fasi più drammatiche del lungo conflitto israelo – palestinese quelle vissute, anche personalmente, nell’aprile del 2014 quando in risposta all’accordo di riconciliazione tra l’Olp e Hamas per la formazione di un governo di unità nazionale, Israele decise di sospendere i colloqui con i palestinesi.
Fu chiaro a tutti che il processo di pace non avrebbe avuto  alcun futuro.
Ancor prima che terminasse la riunione d’urgenza del Gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico, convocata per discutere su come replicare all’intesa, tra noi giornalisti fuori dalla sede del governo a Gerusalemme era trapelato da fonti interne che sarebbero state adottate misure durissime nei confronti dell’Autorità palestinese.
Terminato l’incontro il premier Banjamin Netanyahu, in conferenza stampa, affermò in modo netto che quello sancito dai palestinesi era “un patto che uccideva la pace” e che Israele non avrebbe mai preso parte a trattative con un governo che stringeva alleanze con “un’organizzazione terroristica che aveva il solo obiettivo di annientarlo”.
Il paradosso era che Netanyahu fino a quel momento aveva giustificato proprio con “le divisioni dei palestinesi” la mancanza di progressi nelle trattative.
Se da un lato, Israele accusava lOlp e Fatah di essere in profondo disaccordo tra loro rendendo impossibile una interlocuzione affidabile, dall’altro Mahmud Abbas e i suoi avevano sempre ritenuto la controparte disunita al suo interno e senza alcuna credibile volontà di raggiungere un’intesa.
Quelle posizioni hanno annientato ogni prospettiva di dialogo, favorendo l’unione dell’ala moderata araba con Hamas.
Quanto accaduto nelle ultime due settimane, con la ripresa dei raid aerei da parte delle forze militari e il lancio di razzi da Gaza, non è altro che la conseguenza di politiche sciagurate, da entrambi i fronti.
Possibile che a questo conflitto non ci sia una soluzione politica? Che non si possa trovare una via d’uscita pacifica?
Analizzando gli anni di terrore e di lotta armata che hanno lasciato sul terreno migliaia di vittime, è evidente che lo scontro abbia raggiunto un tale grado di estremismo, un tale livello di odio, che una pacificazione duratura appare poco più di un’utopia.
E a pagare sono sempre i civili, israeliani e palestinesi.
Nel raccogliere le testimonianze di alcuni ebrei italiani che avevano deciso di andare a vivere a Gerusalemme ho compreso quanto la soluzione ‘due popoli – due Stati‘ sia ostica. Ma resta l’unica strada.
La maggioranza degli ebrei non accetta il giudizio di chi guarda dall’esterno al conflitto isrealo-palestinese. “Se non sei ebreo non puoi capire”, l’atto di accusa che ho sentito rivolgermi più spesso.
L’occupazione dei Territori dura da troppo tempo e crea disagi e costrizioni sia ai palestinesi sia agli israeliani.
Che si rischiassero nuove violenze, alimentate dalle reciproche diffidenze e dall’odio atavico tra ebrei e arabi in quelle terre, era sotto gli occhi di tutti. Eppure non è stato fatto abbastanza per evitare l’ennesima escalation di morte.
Non resta che osservare, ancora una volta, se e quanto durerà il ‘cessate il fuoco’ appena dichiarato?
L’unica azione in grado di produrre effetti concreti potrebbe essere una nuova Camp David’, favorita da un deciso intervento della presidenza americana che al momento appare ancora presa dagli strascichi del Covid 19 e dal riassetto economico post pandemia del paese.
Il presidente Joe Biden finora non era andato oltre un’invocazione alla moderazione rivolta a Netanyau, dopo avergli manifestato comprensione per l’azione di difesa del suo paese ma dopo la tregua ha accelerato e ha deciso di sfruttare il cessate il fuoco tra Hamas e Israele come opportunità per ritrovare un ruolo centrale in politica estera tornando  sulla scena del Medio Oriente.
Dopo un inizio incerto per l’amministrazione americana è dunque arrivato 
 l’appoggio  all’iniziativa egiziana.
Quanto la mediazione di Al Sisi, che con questa operazione si riposiziona sullo scacchiere internazionale più autorevole di quanto non sia mai stato, possa risultare efficace e solida è tutto da vedere.
Per ora la tregua regge, resta l’incognita su cosa accadrà tra due settimane quando la Corte suprema israeliana sarà chiamata  a pronunciarsi sulla questione degli sfratti delle quattro famiglie palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah, la miccia che ha innescato il nuovo conflitto.


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