BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Il cinema è libero dalla censura?

3 0

Sono trascorsi poco più di un mese dall’abolizione della censura cinematografica e pochi giorni da un Primo Maggio in cui di tutto si è parlato tranne che del Lavoro (delle sue infinite farraginosità, ingiustizie, morti) e la censura del servizio pubblico è stata chiamata in causa in modo gridato, sostanzialmente personalistico. Una riflessione su cosa sia davvero la censura, con alcuni registi che hanno subito, sopportato, osservato senza aver voce in capitolo le decisioni delle Istituzioni sulle loro stesse opere o su quelle dei loro colleghi, può essere utile per capire anche come il cinema italiano racconta, o può raccontare, il nostro tempo. L’abolizione della censura cinematografica, annunciata il 5 aprile scorso dal Ministro della Cultura, prevede la sparizione del taglio indiscriminato di alcune scene di un film e/o della scelta di vietare la visione di un’ intera pellicola, per mano dello Stato. Basta questo per eliminare il fenomeno complesso dello stigma che, seppure in forme differenti, limita la libertà d’espressione, nelle sue diverse manifestazioni, facendo riemergere prepotentemente il valore dell’Articolo 21 della Costituzione italiana? Lo abbiamo chiesto a Giuliano Montaldo, Liliana Cavani, Pupi Avati, Antonietta De Lillo, Daniele Ciprì, Daniele Vicari.

Una breve storia della censura cinematografica in Italia

E’ del 1913 la prima legge italiana su opere cinematografiche che potessero offendere la pubblica decenza. Nel 1920  viene istituita una prima, apposita commissione composta da personalità delle istituzioni (Ministero degli Interni), ma anche da un magistrato, un educatore, una madre di famiglia, un esperto d’arte, un rappresentante di associazioni umanitarie e un giornalista. Il regime fascista rende più ‘raffinato’ questo strumento di controllo su quella che Mussolini stesso aveva intuito essere la più sofisticata forma di diffusione del consenso: il cinema, appunto. Viene, quindi, istituito il Ministero della Cultura Popolare, che può intervenire su ogni fase di lavorazione di un film e nel 1926 si sancisce ai minori di 16 anni il divieto di visione di alcune pellicole giudicate inadatte all’età infantile. Nel 1934 il controllo diventa organico, con la nascita della Direzione Generale per la Cinematografia. Con la fine della Seconda Guerra e la nuova Repubblica, l’Articolo 21 sulla Libertà di Stampa e di qualsiasi forma di espressione, non blocca la legge Andreotti del 1949 sulla revisione di film, dopo gli “imbarazzanti eccessi del Neorealismo”: prima di ricevere fondi pubblici, la sceneggiatura del film dev’ essere letta da una commissione di Stato (la censura preventiva, s’intende); ma è nel 1962 che la legge su Revisione dei Film e dei Lavori Teatrali entra in vigore e resiste fino a oggi, a quel 5 aprile 2021 che la abolisce.

Cosa prevede l’abolizione della censura cinematografica

All’indomani dell’annuncio pubblico sull’abolizione della censura cinematografica, Nicola Borrelli, Direttore Generale Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura, spiega le direttive che sostituiscono la Commissione di Revisione dei film. Qui sotto, riportiamo le dichiarazioni da lui rilasciate alla trasmissione radiofonica Hollywood Party, Radio3, il 6 aprile 2021.

“La vera novità, in merito alla censura cinematografica è la nascita della ‘Commissione  di classificazione delle opere cinematografiche’. Non appena sarà operativa, decadranno le norme sulla Censura, che risalgono al 1962, emendate e modificate più volte, sino al 1998, mantenendo però l’ impianto vecchio, quello della così detta ‘Revisione cinematografica’. Il cambiamento principale di questa nuova norma consiste nel fatto che il Ministero della Cultura non  può più impedire che le opere cinematografiche vengano tagliate, o non viste. Il Ministero, invece, deve validare una classificazione che il produttore, o il distributore, si auto attribuiscono. Sono previsti precisi parametri, da portare avanti in diversi step: opere vietate ai minori di 6 anni; ai minori di 14; minori di 18; opere per tutti. Il produttore, o distributore, si attribuiscono la possibilità di scelta e il Ministero valida, o meno, le loro scelte. La Commissione non può chiedere che venga modificata l’opera cinematografica e non può impedire la circolazione dell’opera. Inoltre, il sito Cinecensura (www.cinecensura.com), che raccoglie tutti i casi di censura in Italia dal dopoguerra in poi, non verrà più alimentato. La Commissione del Ministero della Cultura che valida l’auto classificazione dei produttori, o distributori, è composta da 49 persone suddivise in 7 gruppi di lavoro, di cui fanno parte un giurista, 2 esperti in materie pedagogico-educative (ovvero sociologi con competenza nella sfera sociale); 7 componenti scelti tra professori universitari di Pedagogia, Sociologia, Psicologia, ed educatori; 7 sono i componenti di varie associazioni dei genitori; 4 sono critici, studiosi, autori di cinema; 3 designati per l’Associazione Nazionale degli Animali. E’ stato firmato il Decreto che nomina queste 49 persone. Non ci sono più componenti amministrative, interne al Ministero della Cultura (questo già dal 1998), e il loro parere è vincolato esclusivamente dalle Commissioni di classificazione”.

La censura che offende il senso ottuso

Abbiamo chiesto agli autori come valutino le nuove scelte del Ministero della Cultura e quali siano le forme assunte dalla censura nel corso del tempo, al di là della sua abolizione. Perché gli autori, in questo genere di decisioni, che vanno dagli stretti contenuti dei loro stessi lavori cinematografici alle scelte finanziarie sui loro stessi prodotti (che incideranno, inevitabilmente, sulle modalità di realizzazione), non hanno mai avuto un’adeguata voce in capitolo. Piuttosto, da Ferreri a Pasolini, da Fellini ad Antonioni, da Rosi a Petri, hanno subito le scelte di commissioni ministeriali, spesso arbitrarie e dettate da un senso comune al quale anche lo spettatore è stato per decenni sottoposto.

L’Articolo 21 della Costituzione sulla Libertà d’espressione, dovrebbe garantire la piena coesistenza, in una qualsiasi forma di comunicazione, di ‘ovvio e ottuso’, per usare due espressioni del filosofo francese Roland Barthes. Nel cinema, accanto all’appuntito ‘ovvio’, il quale dichiara apertamente quello che l’autore vuole dire attraverso la pura immagine e ciò che essa esplicitamente significa, esiste un senso erratico, arrotondato, sfuggente eppure irrinunciabile, che rende il visibile del fotogramma non afferrabile e contemporaneamente penetrante. Attraverso il senso ‘ottuso’, cioè, ciò che si vede a occhio nudo assume forme tanto incisive quanto indefinite per la percezione dell’ovvio. Significati che l’autore non dichiara, ma lascia trapelare oltre lo sguardo immediato, anche oltre al simbolo, in una costante messa in crisi tra comprensione elementare e ideologica (ci si riferisce qui a Roland Bhartes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi Critici III, 1982). La Censura cinematografica di Stato ha tentato sempre di eliminare il ‘senso ottuso’, ma non potendo l’immagine esistere senza di esso, è stato necessario tagliare quella o quella serie di fotogrammi, considerati eccessivamente erratici e, quindi ‘turbanti’; o vietarli per fasce d’età; o ritirarli completamente dalle sale.  Questo ha tolto all’autore il diritto di esprimere ciò che intendeva dire con e oltre la sua opera e al pubblico la possibilità di giudizio e accettazione, o non accettazione, di un film che scrutava la realtà puramente evidente per cercare di penetrare quella nascosta, creando così il rischio dello sconcerto, della scomodità, del disagio.

In definitiva, il cinema è un caleidoscopio sul mondo, una finestra, un obiettivo che scruta. La possibilità di farlo come meglio si crede, dovrebbe essere libera. In questo mondo dove tutto sembra così profondo da non consentire di vedere più nulla, come diceva Leonardo Sciascia, alcuni autori del cinema italiano di generazioni diverse danno un loro parere, o lanciano un grido personale, riguardo questo Artico 21, così interpretabile, manipolato, calpestato. La censura, come tutti gli interventi da parte del Potere su chi crea, non è altro che una forma, più o meno esplicita, di controllo e, verosimilmente, non smetterà di esistere.

“Il Popolo, la Democrazia sono belle invenzioni, cose inventate a tavolino da gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità” (Leonardo Sciascia, Il giorno della Civetta, 1961).

Giuliano Montaldo: “La libertà di espressione per raccontare, non per scandalizzare”.

“Sono felice che non ci sia più la censura, come tutti. Ma da tempo, scrivere, sceneggiare un film che, inevitabilmente, passerà per la tv, comporta un problema reale, che non è Censura di Stato, ma qualcosa di più subdolo, di più nascosto. I famosi bollini, introdotti e scelti arbitrariamente, dal rosso al verde, dalle reti televisive per definire un film come più o meno adatto a un certo tipo di pubblico piuttosto che a un altro, è una forma di censura. E vorrei aggiungere che questa censura, solitamente, viene applicata solitamente  su film di poco conto. Il problema credo sia ai vertici, alle alte cariche delle televisioni italiane, di Stato e non. Prendiamo un qualunque film di Tinto Brass: non sono mai stati trasmessi in tv. Brass era scandaloso, per un certo tipo di mentalità burocrate e ottusa, ma ora? Oggi non c’è più scandalo, perché lo scandalo è ovunque. Eppure, continuiamo a subire bollini e il mancato passaggio televisivo di film che, attualmente, non scandalizzerebbero più neanche un bambino. E’ bene che la censura non ci sia più, ma la libertà d’espressione nasce dalla libertà di raccontare e bisogna tutelare e difendere quella libertà: poter raccontare, senza dover scandalizzare. Io non ho mai avuto tagli di censura. I problemi politici legati alla censura esistono da sempre. Ma quando un autore sente forte l’esigenza di raccontare qualcosa di scomodo, anche questo genere di difficoltà si può arginare. Pensi ad   Achtung! Banditi (Carlo Lizzani, 1951,ì. Giuliano Montaldo recitava nel primo film girato da Lizzani): certo, erano tempi completamente diversi, c’era il dolore e la necessità e l’ urgenza di scrollarsi di dosso le umiliazioni e le morti nazifasciste, ma anche nella totale disperazione e povertà del dopoguerra, quel film si potè girare grazie ai cittadini genovesi, i quali fecero una cooperativa per realizzarlo e distribuirlo. Ecco, quella era la censura che faceva paura: i veti politici sono odiosi. Nella nostra strana contemporaneità, al posto di quel coraggio un po’ incosciente, un po’ consapevolissimo, personalmente vedo un eccesso di timore, di paura, necessità di scandalizzare, che nulla ha a che fare con il dovere e il piacere di raccontare: si possono girare scene fortissime, ma non c’è bisogno di provocare. Perché poi, l’inutile provocazione la paghi con una censura che non è una censura, ma paura, violenza, prevaricazione. Il problema della censura, più o meno tecnica che sia, si supera raccontando le cose, non gridandole”.

Liliana Cavani: “Il Progresso civile, attraverso il cinema, è bloccato per sciatteria, disinteresse, regole di mercato”.

“Ho avuto problemi con la censura, certo, e sono contenta che sia stata abolita. Avrebbe avuto il potere di  correggere squilibri culturali ma di fatto rischiava spesso di essere  strumento di intolleranza. Penso al mio film Galileo (1968); la commissione di censura mi chiese di accorciare le urla di dolore di Giordano Bruno mentre veniva bruciato vivo in piazza Campo dei fiori a Roma. Ma poi il film  fu di fatto bloccato dalle  così dette “manovre di potere” . Poi penso alla censura su “Portiere di notte”.  La motivazione  riguardava una scena d’amore  nella quale la protagonista stava “sopra” l’amante anziché “sotto”, così motivò la Commissione di censura dopo la proiezione.  Il film è stato ritirato dalle sale per tre volte. La prima uscita del film per fortuna è stata a Parigi  con molto successo e anche con un vivace dibattito di opinioni come è logico. Niente censura. Ricordo che  insieme al press-agent  francese dicevamo  come  la Rivoluzione Francese avesse davvero  fatto del bene al dibattito culturale. Non ci fu censura nè in Inghilterra né in USA o in Giappone ecc..In Italia fu ritirato per tre volte ed è stato grazie ad una protesta fatta  con generosità da molti noti colleghi del cinema se ha potuto essere finalmente libero di circolare. Ovviamente se un film incita alla violenza  è un altro discorso.  E’ quindi importante che sulle opere di cultura   venga fatta un precisa revisione di  significato e scopi.  In questo momento ci sono però  altri scottanti problemi per il  nostro cinema  nella divulgazione presso sale e TV . C’è una divulgazione di opere con un mercato  troppo squilibrato. Le cinematografie di paesi  piccoli (come i vari Paesi europei) rischiano  quasi la scomparsa in sala e in TV. L’Europa sta perdendo la capacità’ di essere una Comunità che difende la sua narrazione cinematografica  e questo è piuttosto grave. Eppure la missione della Comunità Europea è anche quella di difendere  lo scambio non soltanto di prodotti che so agricoli o industriali ma anche  quelli culturali come i prodotti audiovisivi  di cinema e TV. Questo non significa rifiutare l’incontro di  culture anzi  significherebbe  incontro e  scambio di idee . Da ragazza insieme a due amici avevamo fatto al mio Paese  un piccolo cineclub per poter vedere i film di registi (Bergman, Bresson, Kurosawa, De Sica ecc..) che le tre sale del cinema locali non proiettavano. Avevamo trovato una piccola saletta grazie alla gentilezza di un convento di Clarisse e andavamo a Bologna all’agenzia di noleggio a fissare i film che volevamo proiettare.  La cinematografia è mondiale come lo è la letteratura dovrebbe significare  circolazione di opere  cioè  incontri di culture quindi  di idee e di emozioni  e  perciò  una via  per conoscerci e per intenderci. Libri e cinema non  sono soltanto narrativa per  gli intervalli  e le vacanze, sono anche  necessari stimoli culturali e sociali di un Paese e  quindi è importante  anzi urgente che ci sia uno scambio di idee  ed emozioni  perché tutti hanno diritto di sapere, di commuoversi  o di divertirsi con il cinema e la TV. Fascismo e Nazismo in questo sono stati indiscutibili manipolatori  di quella visione del mondo che ci ha portato alla seconda Guerra Mondiale, la peggiore della Storia. Nella sala o davanti alla TV o a teatro raccontiamo chi siamo che cosa desideriamo e cosa  ci manca, dove cercare dove approfondire;  è  necessità imprescindibile per tutti i cittadini arricchire fantasia curiosità grazie a un film un documentario, ecc… Se durante il fascismo ci fosse stata una  potente  pubblica ‘obiezione’ grazie ad un’informazione libera penso che  sarebbe andata diversamente. Invece così in Italia come in Germania i cittadini hanno accettato di essere  privati di un diritto fondamentale : la libertà di opinione vale a dire la libertà di pensare perché il motto era ‘Credere Obbedire Combattere’.  Questa privazione è fissata nella Storia umana  da sequenze  terribili e cominciò  non a caso con  il rogo dei libri. Adesso non ci sono roghi per fortuna ma ci possono essere altri meccanismi, per esempio non pubblicare un libro o non realizzare un film perché  potrebbe dare fastidio a un certo gruppo di potere oppure lasciarlo fare e non pubblicizzarlo, lasciarlo morire. Da questo si capisce come  libertà  e cultura democratica  vadano insieme e come siano a volte frenate o bloccate  non  con leggi  esplicite ma  semplicemente col non fare  ‘esistere’ vuoi per sciatteria o disinteresse  o mercato questa ‘roba’  che è il Cinema  che invece importantissimo  per  lo scambio di visione del quale si nutre il Progresso  civile”.

Pupi Avati: “Lo Stato dovrebbe prevedere ‘ristori’  per  la qualità dell’opera”.

“Premetto che io avevo la sensazione che la censura non ci fosse più da tempo, eppure faccio film attivamente, qualche mese fa è uscito il mio ultimo su Sky, per via del Covid, per dire… D’altra parte i fatti della censura tra gli anni ‘60 e ‘80, che ricordo anche con nostalgia per la passione che avevamo noi autori nel contrastarle, non hanno nulla a che fare con quella censura lì, che oggi mi pare anacronistico anche citare. Certo, ho subito personalmente molti danni, come tanti, come troppi di noi autori. Le faccio 2 esempi personali, per farle capire anche la schizofrenia di quelle commissioni censura. Bordella (1976), per esempio, venne sequestrato per 9 mesi, con un danno economico non indifferenti. Magnificat (1993), invece fu giudicato (ma ci rendiamo conto che un film dovesse essere giudicato, come vivessimo ancora in dittatura?) da una commissione che, misteriosamente, o casualmente, non lo mai capito, illuminata: ci sono scene di vita quotidiana medievale molto violente, c’è anche uno squartamento, ma non venne tagliato perché quella commissione capì che il Medioevo è stata un’epoca meravigliosa e brutale e così, brutalmente, doveva essere descritto e raccontato.  Guardi, ricordo perfettamente i cortei, le fiaccolate di fronte al Ministero del Turismo e Spettacolo, le proteste collettive  contro i tagli di Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci, o Il portiere di notte (1974) della Cavani Era giusto, ma è una cosa passata e poi, le assicuro che, in quegli anni, alcuni produttori particolarmente cinici e scaltri auspicavano quasi il sequestro: lo rendeva un film richiamo, il fatto di essere stato censurato, creava maggiore curiosità nel pubblico e dava maggiore  appeal al film. Quella censura lì è cosa vecchia. Esistono altre forme di censura, molto più violente. La censura dell’autore, o autocensura, è una questione di responsabilità personale: molti registi, oggi, non pensano più ai riscontri, di critica e pubblico, del film in sala cinematografica, ma addirittura costruiscono il film per il pubblico televisivo, perché piaccia esclusivamente ai produttori e ai telespettatori. Questo è un problema enorme, ma, ripeto, legato in parte anche alla responsabilità personale. Per me, in questo momento storico, dichiarare l’abolizione della censura è una cosa anacronistica, peggio: mi pare un gravissimo ritardo, che però non cambia nulla, nei fatti. E lo dico proprio perché  sono un regista attivo, con 53 film realizzati e usciti. La censura vera, oggi, è una censura finanziaria. Hanno abolito un aspetto fondamentale della liturgia del finanziamento pubblico: l’incontro con l’autore. Questo è folle, questa è censura, oltre che vigliaccheria. Se io, produttore, devo finanziare un film, devo vedere, conoscere, comunicare con l’autore. Mi sono battuto moltissimo per l’ incontro tra produttori e autori restasse un caposaldo, nell’iter del finanziamento al film. Invece, è stato abolito: questa è un’aberrazione, inquietante, insopportabile. Perché un autore non può partecipare alle decisioni sulle sorti del sul suo film? Ma soprattutto, in questo generale decadimento, le assicuro che spesso chi decide i finanziamenti sono persone di scarso livello culturale e di scarsa competenza cinematografica. Si tratta di vera “imbecillità al potere”, come dice Sabino Cassese. L’audizione era un elemento fondamentale. Un altro elemento fondamentale, che è stato cancellato, era il Premio di Qualità: tutti i partecipanti di un film, che è opera collettiva, dagli ideatori, dai montatori, agli scenografi, tutti, fino ai distributori di quel film, ricevevano il Premio Qualità per aver lavorato su quel film. Questo era un incentivo che stimolava i professionisti del cinema, che incentivava la gente ad andare al cinema, e che, quindi, arricchiva il cinema tutto e stimolava, comprovava, convalidava la qualità dell’opera: lo Stato premiava la qualità premiando i professionisti del cinema. Per tornare a Magnificat , per esempio, quello fu un film che vinse il Premio di Qualità, pur avendo avuto un incasso bassissimo al box office e pochissimi spettatori. Questi interventi dello Stato erano importanti. Sono stati tutti aboliti. Lo Stato italiano invece, seguendo i Paesi dove il cinema ancora vive, dovrebbe “ristorare” (per usare un brutto termine, molto di moda), sulla qualità. E poi, un’altra cosa che mi preme dire, anche rispetto alla censura, è che non è vero che tutto il cinema è cultura: molti sono film sono puro intrattenimento, fanno parte di un ‘mercato di distrazione’. Il cinema non è più cultura. C’è chi, invece, questa cosa la sostiene, creando una profonda ambiguità e molto, troppo spesso, chi cerca di dare un senso a ciò che fa, chi cerca la qualità nel film che vuole girare,  spesso e volentieri viene messo da parte. Io ho impegnato 18 anni riuscire a iniziare un film su Dante Alighieri. Finalmente ora lo so:  lo gireremo con mezzi contenuti, con pochi soldi, ma finalmente me lo faranno fare. Per concludere sul tema generale, vorrei ribadire che, più che guardare alla censura (che mi pare esclusivamente un’operazione di maquillage), bisogna pensare ai finanziamenti per il cinema, troppo poco aiutato”.

Antonietta De Lillo: Se non è questa la censura, cos’è?

“Io non faccio un film dal 2005. Non è che non ci ho provato, dopo il mio miglior film non ci sono più riuscita. Mi sento proprio una regista censurata. Quindi la contentezza per l’eliminazione della censura è un atteggiamento che mi lascia perplessa: la censura che ha bloccato decine di film, da Umberto D (1952) di De Sica all’ultimo caso eclatante di Totò che visse due volte (1998) di Ciprì e Maresco, non è la censura contemporanea. La censura non è più sui contenuti, magari lo fosse: ci sarebbe uno scontro più sincero. La nuova censura è la censura del potere, spesso del potere economico, che decide cosa si deve raccontare e produrre e cosa no.La produzione di immagini, la serialità, la televisione, l’audiovisivo in generale, stanno vivendo un’epoca particolarmente gloriosa. Ma allora, mi chiedo, perché gli enti pubblici, anche attraverso la legge Franceschini, sostengono un’industria già enormemente florida e che trae i suoi ricavi dalla televisione e delle piattaforme? La nuova legge cinema, di fatto, facilita i grandi gruppi, i produttori televisivi, elargendo grosse somme di denaro a chi già ne ha tanto. Questi gruppi sono pochi e sempre più potenti. Mi chiedo, l’industria di un cinema fatto di osservazione della realtà, di approfondimento, anche di un dissenso sano e costruttivo, che privilegia il veicolare di contenuti che vengono prima dell’interesse economico, non dovrebbe essere più sostenuta e incoraggiata? Come conseguenza della politica culturale di questi ultimi anni questo tipo di narrazione è invece poco finanziata e quindi, di fatto, censurata, in una forma sottile, subdola. La censura del potere economico esclude sempre di più prodotti con vocazione culturale e, guarda caso, nella nuova legge cinema la dicitura dell’interesse ‘culturale nazionale per la produzione dei film’ mi sembra essere sparita. Cosa c’è da esultare? Oggi gli interessi privati si sono appropriati degli spazi pubblici. Tutti sono stati contenti che la BNL sia intervenuta a favore e a sostegno di un progetto culturale sicuramente apprezzabile, che non andava lasciato morire, come l’Azzurro Scipioni, per citare un caso recente. Ma come possiamo dimenticare tutto il problema della privatizzazione di Cinecittà di cui proprio la BNL e Luigi Abete sono stati tra i protagonisti? E poi, mi chiedo, è giusto che un ente privato si sostituisca al pubblico nel tutelare una realtà culturale per garantirne la sopravvivenza?  Non dovrebbe essere compito della politica?

Esiste anche la censura giudiziaria. Io, ad esempio, sono un’autrice che ha avuto l’avventatezza di dire che il mio film Il resto di niente (2005) era stato mal distribuito. Questa dichiarazione mi è costata una diffamazione da 250.000 euro da parte dell’Istituto Luce, un ente cinematografico pubblico. Tanti, all’epoca, tra i quali Ettore Scola, parlarono esattamente di censura.  Il 15 dicembre 2005 un articolo dell’Unità! titolava: “Ettore Scola: Oggi il cinema si censura a colpi di querele” e, nel testo, si legge: “Una formula inedita di censura che trasforma l’autore da vittima artistica a vittima giudiziaria”. Ettore Scola commenta e si schiera contro la “salatissima” querela per diffamazione (250.000 euro) presentata dall’Istituto Luce nei confronti di Antonietta De Lillo a proposito del “caso” Il resto di niente […] Davvero non si era mai visto – prosegue Scola – che una distribuzione che mal distribuisca un film quereli l’autore. A che punto siamo? Un regista non può neanche lamentarsi, ma deve diventare complice di una mala gestione e non può neanche difendere il suo film?”. Sono passati quasi 20 anni dalle parole di Scola ma la censura del potere, delle querele e del mercato, esiste ancora, molto più presente che nel passato. Mi piacerebbe che tutti noi aprissimo gli occhi. Che la censura come la ricordiamo (nella sua forma classica e brutale di taglio dei contenuti e, quindi, deturpazione di un prodotto filmico) venga abolita va bene, ma non può diventare uno slogan. C’è poco da esultare. Mi piacerebbe un mondo della cultura che – oggi più che mai – diventi avamposto di un cambiamento e di un miglioramento del nostro sistema Paese. Dobbiamo riprenderci il nostro ruolo primario, senza paura di essere messi da parte. Se il re è nudo, perché nessuno lo dice?  Se non è questa la censura, cos’è? È anche grave la scomparsa del ruolo del pubblico, degli spettatori: hanno perso, loro malgrado, il loro ruolo di garanti, di giudici, di osservatori critici del prodotto audiovisivo che guardano. Il nostro cinema – che si dice essere bellissimo negli ultimi anni – quali film che hanno cambiato il mondo ha prodotto? Forse l’ultimo film che abbia davvero inciso sulle coscienze, e anche sulle scelte giudiziarie, è a mio avviso Sulla mia pelle (2018) di Alessio Cremonini, sul caso di Stefano Cucchi. Ma è un film solo, mentre – come dice Lucio Fulci in una breve dichiarazione sull’oscenità della censura – bisognerebbe avere uno sguardo politico sui racconti. Scola, Scarpelli, Monicelli, riuscivano a essere politici attraverso la commedia. Si fa politica ridendo. Cosa stiamo facendo, noi?”.

Daniele Vicari: Lo Stato, dopo l’abolizione della Censura, dovrebbe  reintegrare i film che ha censurato, ma la censura riguarda anche gli autori e il coraggio dello scontro con il Sistema.

“Non sono d’accordo con chi ritiene una sorta di ‘supercazzola’ aver emendato la normativa della censura eliminando i divieti per fasce d’età e il taglio delle parti censurate dall’opera. Adesso però lo Stato, se vuole essere conseguente con le nuove disposizioni, deve favorire la reintegrazione dei film censurati con i tagli e conservati nei frigoriferi della Cineteca Nazionale. La censura è una barbarie indegna di un paese democratico ed ha colpito in maniera dolorosa centinaia di opere uscite poi al cinema menomate, modificate a volte profondamente, come Totò e Carolina (Mario Monicelli, 1955) che fu tagliuzzato in decine di parti. La censura del mercato può essere dolorosa e definitiva come quella dello Stato, soprattutto in un paese come il nostro dove il ‘mercato’ è un concetto astratto, si dovrebbe parlare di ‘oligopolio’. Per ridurre l’impatto di questo tipo di censura è necessaria una normativa antitrust “verticale” e “orizzontale”, altrimenti si verificano follie come quella che è toccata ad Antonietta De Lillo che da troppi anni non fa un film, perché si è scontrata con una porzione del sistema produttivo, ma è bastato questo per isolarla, bisogna dire anche per la scarsa reattività degli autori. A questo proposito l’autocensura degli autori è un tema delicato e intrigante. Durante i regimi o in presenza di un controllo fortissimo della politica sulla produzione intellettuale e artistica, tendenzialmente l’autore è uno che ‘tiene famiglia’, quindi cerca istintivamente di non rompere le scatole a nessuno. Ma la libertà intellettuale e artistica non va tanto d’accordo con l’autocensura: alla lunga è la qualità delle opere che decade. Meccanismi di selezione di autori e opere sono comunque inevitabili, i produttori fanno un primo filtro, non sempre solo di gusto, a volte anche di opportunità. A loro volta, le televisioni filtrano ulteriormente e gli autori si adeguano o smettono di lottare troppo facilmente. Ecco che decade la dialettica tra autore e produttore che porta alla decadenza della dialettica tra opera e pubblico, infatti l’ultimo filtro nel cinema lo fa la distribuzione, fase nella quale si ripropone un molteplice filtraggio: di gusto, di opportunità, di previsione di pubblico, eccetera. Ecco che la censura, nel nostro momento storico, si liquefa e occupa ancora più interstizi del passato, al punto che il ‘sovrano’,  la ‘politica’ non ha nemmeno questa incombenza: ci pensano le ‘articolazioni’  della filiera a riportare a miti consigli coloro che escono dai canoni. Ma allora di cosa stiamo parlando? Parliamo della necessità dell’artista di scontrarsi con il ‘sistema’, qualunque esso sia, se questo scontro non c’è, emerge quella che De André definiva: ‘una pace terrificante’ ”.

Daniele Ciprì: “Censura e autocensura hanno creato un cinema di puro intrattenimento del quale non rimarrà traccia”.

“Non so se si tratti di sciatteria, o disinteresse, ma in Italia c’è molta superficialità sull’arte, che è considerata esclusivamente una forma di ‘intrattenimento’: certo, lo è, ma ci sono modi differenti per intrattenere  e noi autori siamo abbandonati ai portali dei supermercati di svago che sono le piattaforme e le piattaforme non sono libere. Il cinema d’autore, invece, dev’essere libero: come autore posso sbagliare un film, ma sbaglio con una mia riflessione sul mondo e voglio avere la possibilità di farla. La censura è un modo di produrre, è una forma di autocensura dei produttori (molto precedente alla così detta ‘autoregolamentazione’ della nuova norma) e gli autori non hanno voce in capitolo. Io e Maresco, con Lo zio di Brooklyn (1995) o  Totò che visse due volte (1998), abbiamo pagata molto cara la libertà di interpretare a modo nostro la realtà e la  punizione che abbiamo subìto, per altro, era fuori luogo, fuori tempo: l’accusa di vilipendio della religione fu un fatto ridicolo, nel 1998. Soprattutto Totò che visse due volte era un’evocazione, una riflessione sulla religione, su come l’aveva pensata anche Pasolini, su come la pensavamo noi. Io penso anche al futuro: bisogna ripartire dalle sale, far vincere le sale, perché produrre film pensando di catturare il pubblico delle piattaforme non porterà ad alzare la qualità, tutt’altro. E in questo sistema in cui la ricerca del consenso è l’unico obiettivo, la censura (che sia o non sia effettiva per Legge) non sarà neanche necessaria, perché temo che tutto verrà livellato, appianato. Tutto diventerà quieto, convenzionale, rassicurante.

In Italia ci sono più produttori che registi e i produttori calcolano al millimetro i vantaggi che potranno trarre  da un film, senza osare nulla, senza sperimentare nulla, senza rischiare nulla. I produttori, oggi, sono  calcolatori elettronici aziendali. Non c’è più un Dino De Laurentis, che produceva e vendeva film in America, per poi reinvestire i guadagni di quei prodotti nel cinema italiano d’autore. Ora non è possibile fare una cosa del genere. Il produttore oggi si adegua al mainstream delle piattaforme, cancellando anche l’idea di fare un film pensato e voluto dal regista. E così, l’unica libertà che resta, è la libertà tecnica: se andiamo a guardare le serie tv e i film che si realizzano oggi, hanno quasi tutti un livello tecnico elevatissimo (e lo dico da direttore della fotografia, oltre che regista), ma il digitale è un mezzo, non un modo di essere. La libertà tecnica non è libertà di pensiero. Se un giovane autore di cinema sceglie di fare un film girato con un cellulare, filmando ad altissimi livelli di risoluzione visiva, ma non può esprimere quello che vuole perché ciò che pensa può rappresentare un rischio per il produttore, a cosa serve tanta perfezione formale, tecnica? Parlo dei ragazzi perché insegno nelle scuole di cinema e mi preoccupo per il loro futuro. Ai miei studenti faccio sempre una domanda: perché fate cinema, quale motivazione c’è in voi ed è abbastanza forte questa motivazione, per sopportare tutte le porte in faccia che prenderete e tutto quello che dovrete sopportare, per mantenere viva la vostra motivazione? Ai miei studenti parlo di un cinema che non si fa più: Orson Welles, Scorsese, Wenders… e di tutti quei film che hanno condizionato il mio pensiero e la libertà di farlo. E non è una forma di nostalgia o rimpianto: io e Maresco abbiamo fatto il cinema che volevamo fare, forse noi eravamo arroganti, aggressivi, ma abbiamo pagato tutto il prezzo della nostra voglia di esprimerci in modo autonomo, secondo un nostro modo di guardare la realtà, oltre la censura vissuta e subita. Il cinema italiano del nuovo millennio, mi pare che abbia abbassato tutti gli standard, tranne quelli tecnici forse, per compiacere sempre più il mercato. Dovremmo girare film dai quali traspaia che facciamo parte di una cultura europea, quella di Fellini, Bergman, Truffaut, Tarkovskij, Kieslowski… Invece, scimmiottiamo gli americani, ormai in modo irrimediabile, perché nessuno oggi, in Italia, produrrebbe quel cinema d’autore italiano, europeo, che ci ha reso grandi nel mondo. La censura, l’autocensura, la censura dei produttori e dei distributori, in tutto questo ha un peso specifico enorme. Come si esce da questi meccanismi? Non lo so più, credo che i prodotti, tutti, dovrebbero uscire dalla logica del calcolo millimetrico su quanti soldi farà un film e su quanti spettatori lo vedranno in tv. Perché forse ci siamo tutti assuefatti e non ci pensiamo più, ma i film che vanno in onda in tv, gli unici che si producono in sostanza,  sono film calcolati per un pubblico che non progredisce, ma regredisce. Questo è un danno. Quello che si vede, oggi, offende l’intelligenza e la capacità critica e la curiosità dello spettatore, che non viene mai messo di fronte a un dubbio, a un argomento che esca dai piccoli confini dei nostri bei panorami delle province italiane. Insegnando, ho scoperto che c’è una generazione di giovani molto intelligente, ma un mondo che non accetta e non investe e non rischia su quell’intelligenza. Ci sono registi che hanno voglia di fare cinema pensato, ma la regola del consenso non glielo permette. Invece, con Totò che visse due volte io e Maresco, che pure eravamo in continua polemica con il cinema italiano dominante degli anni ‘90, abbiamo potuto realizzare quel film. Cosa ne abbia fatto la censura di Stato è un fatto drammatico per noi, ma con i nostri film abbiamo potuto combattere contro quel cinema minimale italiano di quegli anni, di cui non è rimasto nulla nelle memorie, perché il puro intrattenimento non lascia nessun segno. L’intrattenimento per l’intrattenimento può essere anche un modo di fare cinema, ma  non ne resta traccia. Forse, noi, con quel film che poneva dubbi e aveva un punto di vista preciso, un piccolo segno lo abbiamo lasciato, oltre lo scalpore per il ‘vilipendio della religione’.

Col passare del tempo, con l’arrivo della Pandemia ancor di più, si è sviluppato un solipsismo del cinema italiano spaventoso, una forma di presunzione abbastanza immotivata, anche perché credo che stiamo perdendo tutta la nostra fantasia. Anche le serie TV, che mi incuriosiscono molto e ho un’idea precisa su una serie che vorrei tanto realizzare, sono curatissime, hanno fotografie e regie perfette, ma non hanno fantasia. Non si può più raccontare per immagini  un mondo inventato, surreale, fantascientifico.

La censura è doppia: succede a me come ad altri, e lo posso constare perché faccio anche il direttore della fotografia e mi confronto con tanti registi, collaboro con tanti autori.  Da una parte, non è possibile fare riflessioni  poco rassicuranti perché vengono censurate, soprattutto in tv; dall’altra  c’è l’autocensura dei produttori e anche dei committenti. Come spettatore mi sento offeso. L’ho già detto: chi guarda ha una propria sensibilità e intelligenza, ma vengono continuamente calpestate. Bisogna fare un cinema che magari sia meno perfetto, ma abbia una sostanza che resti nel tempo. Questo è il momento della gente che gioca a fare il cinema, a sbalordire con le immagini, senza raccontare nulla. Si fanno film pornografici: film che non mostrano nudi, sesso, erotismo, ma sono ugualmente osceni. L’auto regolamentazione del produttore prevista dalla norma che sostituisce la censura, temo sarà un disastro, perché tutto il contenuto verrà sempre più filtrato. E penso anche al fatto che inostri film non vengono venduti perché non riflettono su nulla. E questo è un fallimento per tutti, la dimostrazione che le scelte sono sbagliate. Io l’ho pagata per fare quello che ho voluto fare, ma sono la testimonianza di una ribellione. Vorrei vederla ora, quella ribellione di Lo zio di Brooklin o Totò che visse due volte, anche diversa ovviamente, ma vorrei una ribellione vera, sincera”.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21