Caro Roberto, ti scrivo questa lettera anche se, ahimé, non ho mai avuto la possibilità di conoscerti di persona. Eppure ti conosco lo stesso, grazie alle tante esperienze vissute negli ultimi 10 anni in un percorso di vita e professionale che in qualche modo ho condiviso con te attraverso il premio per il giornalismo investigativo che porta il tuo nome.
Non lo dico tanto per dire: da quando ho partecipato alla prima edizione del Premio Morrione ormai nel lontano 2012, ho avuto la possibilità di conoscerti sempre meglio, anno dopo anno, attraverso quello che hai trasmesso alle persone con cui hai vissuto o lavorato, o che hanno conosciuto bene il tuo lavoro, e che sin dall’inizio ruotano intorno all’organizzazione del premio. Persone e professionisti che continuano a trasmettere a loro volta la tua eredità ad altri colleghi più giovani, che hanno avuto la possibilità di partecipare negli anni.
In qualche modo l’ho capito sin da subito che quella passione e quell’energia che riconoscevo in tante persone, tutor o organizzatori, provenivano da qualche parte. Avevano una radice comune. E quella radice non trasmetteva soltanto passione, ma anche principi di giornalismo, che poi sono quelli che contraddistinguono il premio, che ne fanno un’occasione più unica che rara per chi in Italia vuole iniziare a lavorare nel mondo del giornalismo investigativo.
Professionalità, indipendenza, rigore, cura per i particolari, coraggio e a volte anche un pizzico di incoscienza ad affrontare sfide che sembrano troppo grandi o per qualche motivo troppo rischiose. Sono questi i pezzi del bagaglio che ho raccolto nella mia personale esperienza al premio anni fa e che ancora oggi cerco di portarmi dietro. E questo stesso bagaglio l’ho riconosciuto via via negli anni nelle tante inchieste che sono state realizzate grazie al sostegno e all’affiancamento del premio, e che meglio di qualunque altra cosa testimoniano quel passaggio di eredità.
Anche perché, anche questo l’ho avvertito da subito, l’aspetto forse principale di questa tua eredità è proprio la voglia di tramandare le conoscenze ai colleghi più giovani, passare il testimone, trasmettere metodo, dare spazio al merito.
In realtà, caro Roberto, il mondo del giornalismo è molto cambiato, e ancora di più è cambiato il mondo “là fuori”, quello che cerchiamo di raccontare, e a volte speriamo di raddrizzare. Probabilmente fare questo mestiere è diventato ancora più difficile. Tante testate sono in crisi, avere una posizione stabile all’interno di un’azienda che fa informazione è diventato quasi un privilegio, e anche chi raggiunge questo traguardo si può trovare di fronte a delle condizioni di lavoro complicate.
Il problema non è solo economico. Ritmi sempre più serrati, moltiplicazione delle fonti, velocità, iperproduzione di notizie, ricerca del click. L’informazione è cambiata, non ha più confini. Da una parte in meglio: ci sono potenzialità inimmaginabili solo qualche anno fa, come l’accesso diretto a fonti che vivono dall’altra parte della Terra, tramite social, siti e piattaforme online. Dall’altro lato della medaglia, però, tutto rischia di scomparire in un “fiume” di notizie, difficile da raccontare e da leggere. I ritmi costringono i giornalisti a interpretare la realtà attraverso uno schermo, seduti a una scrivania. Gli enormi flussi di informazioni non sempre riescono ad arricchire il lettore, lo spettatore o l’ascoltatore. A volte rischiano persino di renderlo indifferente ai problemi.
Tu stesso l’avevi intuito anni fa, quando l’informazione h24 muoveva i primi passi. Avevi capito che in questo flusso di informazione era necessario più che mai il ruolo dell’approfondimento, dell’inchiesta. Era necessario individuare storie che meritano di essere raccontate con attenzione ed era importante contestualizzarle, avere tempo, andare nei luoghi, incontrare le persone, leggere i contesti. Capire, andare a fondo, prima di iniziare a raccontare.
Ma non è solo l’informazione che è cambiata. Come dicevo, anche il mondo là fuori è cambiato. Le sfide, le minacce, le opportunità sono diverse, così come sono diversi i confini della narrazione. Avevi intuito anche questo, quando osservavi che il nostro pianeta è diventato sempre più piccolo, e per questo i problemi che ci sembrano lontani meritano attenzione. Oggi per noi è evidente che quello che succede in una foresta nel Sud Est asiatico o in un piccolo villaggio in Sudamerica si ripercuote inevitabilmente anche sulle nostre vite, nel nostro quotidiano. Lo vediamo da anni. Prima è stata la crisi economica, che ci ha presentato il conto di una globalizzazione “selvaggia”, priva di regole. Poi abbiamo cominciato a capire la dimensione del collasso ambientale del pianeta e le conseguenze che impattano sulla nostra vita, sul nostro presente e sul nostro futuro, sempre più incerto. Alla fine nell’ultimo anno abbiamo subito sulla nostra pelle le conseguenze della perdita di equilibrio con la natura, attraverso una pandemia.
Eppure, caro Roberto, a volte sembra che ancora oggi l’informazione e il dibattito pubblico, quantomeno nel nostro Paese, fatichino un po’ ad adeguarsi ai nuovi temi e alle nuove sfide. I temi che campeggiano sui titoli a volte sembrano superati, inadeguati a raccontare il nostro presente. Penso che un aspetto interessante del premio a te intitolato sia proprio questo: i temi affrontati dalle inchieste che hanno partecipato negli anni, proposte da una nuova generazione di professionisti indipendenti, quasi sempre si discostano molto dalla narrazione comune dell’informazione, andando a toccare temi fondamentali ma a volte trascurati.
Penso alle diverse inchieste sull’ambiente, l’agricoltura, l’alimentazione, l’inquinamento, oppure a quelle che hanno affrontato i nodi della globalizzazione, la delocalizzazione, i traffici internazionali, la gig economy, o ancora a quelle che hanno approfondito temi sociali dimenticati, oppure quelle che si sono spinte a parlare di criminalità organizzata. Temi per capire e affrontare le tante crisi della nostra epoca, storie su cui non dovremmo mai spegnere i riflettori, ma che invece a volte faticano a trovare spazio nel panorama dell’informazione. O a volte, nei casi peggiori, sono lasciati in balìa di chi ha interesse a orientare la narrazione sui propri binari.
Certo le risorse mancano, e come sai meglio di chiunque altro fare inchiesta o approfondimento su temi complessi senza tempo e risorse non è possibile. I giornali sono in crisi, i compensi a volte finiscono per mortificare il lavoro dei collaboratori, il mercato offre veramente pochi spazi. Parlando con tanti colleghi che negli anni hanno partecipato al Premio Morrione ho raccolto sempre storie di difficoltà a trovare spazi e a far quadrare i conti. Qualcuno è riuscito a entrare in una redazione e sta provando a farsi strada. C’è chi ha dovuto abbandonare questo lavoro e dedicarsi a qualcos’altro. C’è chi ha scelto di puntare sull’estero in cerca di condizioni migliori di lavoro. C’è poi chi ha trovato il modo di far convivere diverse attività per continuare a fare questo mestiere.
Io stesso potrei collocarmi in quest’ultima cerchia, e alla fine lo dico quasi con orgoglio, perché negli anni ho visto molti colleghi barcamenarsi tra diversi progetti e andare comunque avanti con determinazione, credendo in quello che fanno nonostante le difficoltà a volte proibitive. E tanti sono ottimi professionisti che fanno un gran lavoro. Alla fine forse è proprio questa determinazione, questa urgenza di raccontare aspetti della realtà altrimenti trascurati, che ti spinge a fare inchieste, a investirci energie e risorse. E i risultati arrivano sempre, secondo me. Un po’ come dicevi tu, che poi è il motto del premio: “Fa’ quel che devi, accada ciò che può”. Metticela tutta, i risultati in un modo o in un altro arrivano. Magari non come li immaginavi, non come te li aspettavi, ma prima o poi arrivano.
È stato un privilegio incontrarti, grazie di tutto!
di Francesco De Augustinis, vincitore della prima edizione del Premio Morrione