Ne fa ottanta Robert Allen Zimmerman, per tutti Bob Dylan, il menestrello di Duluth, il cantore dell’America ribelle che negli anni Sessanta si lasciò travolgere dal sogno kennediano della Nuova frontiera e dalle marce per i diritti civili del reverendo King, in una stagione di cambiamento ma, al tempo stesso, di dolore e vergogna, caratterizzata dall’ingiustizia del Vietnam e dalla feroce battaglia contro le disuguaglianze sociali e razziali.
Alla musica di Dylan, premio Nobel per la Letteratura nel 2016, genio ineguagliabile dal carattere spigoloso e tendente all’insopportabile, con il suo tour infinito e il suo grugno costantemente esposto, alla musica di Dylan, dicevamo, dobbiamo le speranze di una generazione e la nostalgia delle successive per un tempo non vissuto e, probabilmente, irripetibile. Ecco, pensando a quest’icona globale, alla sua arte e alla sua grandezza senza pari, ci scorrono davanti agli occhi otto decenni di storia americana e mondiale, la nostra biografia collettiva, le nostre ambizioni sconfitte, le nostre illusioni cui sono state spezzate le ali e quella dirompente voglia di cambiamento che è stata distrutta e non si è mai ripresa, soprattutto da quando il capitalismo arrembante ha deciso di creare una società talmente diseguale da privare le nuove generazioni di ogni prospettiva.
Bob Dylan è sempre stato un simbolo della contestazione, un ribelle per natura, il poeta della rivolta, la voce dell’insoddisfazione, l’emblema della riscossa e, infine, l’ultimo brandello di gloria che ci è rimasto, quando tutte le emozioni sono state calpestate, tutte le prospettive sono venute meno e non ci è rimasto che il dolore del rimpianto.
Ascoltandolo, chi ha la mia età prova, come detto, nostalgia per un tempo che non ha vissuto, per una stagione che avrebbe voluto vivere, per un’epoca in cui ancora non era utopistico pensare di poter cambiare il mondo o, anche se lo era, ci si credeva ugualmente e sembrava davvero una bella cosa.
Bob Dylan è uno dei pochi protagonisti di quel decennio indimenticabile che sono stati gli anni Sessanta a poter dire di aver vinto, forse l’unico insieme a Joan Baez, se non altro perché non ha mai smesso di essere se stesso, non si è mai arreso, non si è mai piegato alle mode e ha continuato a cercare, conoscere, scoprire, regalare emozioni e viverle in prima persona. Ribelle e anticonformista anche in questo: uno degli ultimi rimasti. Ottanta di questi giorni, intramontabile Dylan!
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