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Bob Dylan ci indica ancora la strada, canta le nostre contraddizioni

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Hey, mister Tambourine, il calendario dice che stavolta le candeline sono ottanta, ma pare che i tempi stiano cambiando un’altra volta, proprio come quand’eri ragazzo. O forse è solo un’impressione. Di certo c’è che Robert Allen Zimmerman (Duluth, Minnesota, 24 maggio 1941, genitori ebrei ucraini, lontane origini turche e lituane, cresciuto nel mito di Woody Guthrie), dopo aver legalmente cambiato il nome in Bob Dylan nell’agosto 1962, in tutti questi decenni ha cambiato anche la storia della musica, della cultura, del costume del Novecento.

Ora avrà anche un suo museo, il Bob Dylan Center con sede a Tulsa, Oklahoma: aprirà i battenti il 10 maggio 2022 e sarà il deposito di oltre 100.000 “tesori culturali esclusivi”, che verranno periodicamente esposti al pubblico. Nella collezione sono incluse registrazioni edite e inedite, film di spettacoli e performance, fotografie e manoscritti.

Il centro sarà situato nel quartiere delle arti di Tulsa, vicino a un’attrazione già popolare, guarda caso il Woody Guthrie Center. Nell’edificio troveranno spazio una sala di proiezione per documentari e concerti, alcuni inediti; uno studio di registrazione in facsimile, “dove i visitatori sperimenteranno com’era essere presenti a una delle storiche sessioni di registrazione di Dylan”; una cronologia multimediale dell’intera vita dell’artista; una mostra a rotazione di materiali d’archivio. Una sezione del museo, la Columbia Records Gallery, sarà dedicata alle “immersioni profonde” in alcune delle sue canzoni più amate. L’archivio di Bob Dylan è stato acquistato nel 2016 dalla fondazione del petroliere George Kaiser che nel 2011 aveva acquistato anche le carte – ci risiamo – di Woody Guthrie.

Di celebrazione in celebrazione, Dylan giunge a un’età che per quasi tutti è quella della pensione, dell’appagamento, dei bilanci, delle pantofole. Non per lui, non per l’eterna anima errante sempre in giro per il mondo, sempre in cerca di un pubblico dinanzi al quale strapazzare vecchi classici fino a renderli a volte irriconoscibili.

Tracce di grandezza, di genialità anche in questa apparentemente incomprensibile bulimia di spettacoli, di genti e luoghi nuovi, di emozioni da far rinascere. Anche perchè Dylan poteva benissimo chiudere baracca e burattini anche vent’anni fa, che il suo segno nella storia della musica e della letteratura del Novecento l’aveva già lasciato.

Per fortuna non è andata così, e altra bellezza è sgorgata dalla sua creatività. Altre canzoni, altri dischi sono arrivati. Alcuni non fondamentali, altri all’altezza del mito. Ci piace sempre ricordare “Modern times”, che al di là della citazione chapliniana dei “tempi moderni” suonava come una garbata presa in giro ma anche una netta presa di distanze dal nostro presente così brutto, volgare e confuso. Come dire: in questo caos, in mezzo a questa follia, l’unica salvezza è il ritorno alla semplicità, alle origini, alle radici.

Mezzo cowboy e mezzo signore del sud degli States, dopo essersi tolto lo sfizio di fare il dj e di pubblicizzare biancheria intima e automobili, Dylan con quel disco si rimise al centro della scena con musiche senza tempo, fra blues e honky tonk, fra jazz e country, fra classici rock’n’roll e ballate, fra valzer e appassionati ritratti della classe operaia e ancora velati messaggi religiosi.

Canzoni ricche di suoni scarni, semplici, essenziali, puliti. Interpretate con quella voce roca che sembra in grado di scolpire la roccia, che da tanto tempo indica la strada, la rotta, canta le nostre contraddizioni, la confusione e il disincanto di questi scassatissimi “tempi moderni”.

Nel 2016, dopo l’Oscar, il Pulitzer e svariati Grammy, e dopo varie candidature al Nobel che già erano parse delle provocazioni, gli accademici di Stoccolma finalmente gli assegnano il Premio con l’iniziale maiuscola per la letteratura: apriti cielo, fra proteste e polemiche, infine messe a tacere da un plauso non unanime ma convinto da parte di moltissimi. Che passarono sopra anche alla scelta, giudicata irrispettosa dai più, di non presentarsi alla cerimonia di consegna del premio per ricevere il quale tanti letterati e artisti si farebbero tagliare la mano destra…

Nel dicembre scorso – con il Never Ending Tour fermo causa pandemia, ultimo concerto finora nel 2019 con oltre tremila show dal 1988 in poi – Bob Dylan sottoscrive un accordo con la Universal Music per la vendita dei diritti di oltre trecento sue canzoni.

Ora festeggiamo gli ottant’anni di un artista senza il quale la musica e la cultura e dunque anche il mondo oggi sarebbero diversi. Happy birthday, mister Tambourine. Geniale ed enigmatico come solo i grandissimi.


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