Vent’anni senza Alessandro Natta e forse è arrivato il momento di riconoscergli i meriti che, a suo tempo, gli neganmmo. Prese in mano il PCI dopo la morte atroce di Enrico Berlinguer a Padova, in un momento di svolta della sinistra e del mondo, negli anni della Reaganomics e del liberismo arrembante, quando si ponevano le basi per la teoria riguardante la “fine della storia” e si cominciava a discutere del dopo. La Prima Repubblica era all’atto finale: un passo d’addio senza dignità e senza prospettive, con un PSI ormai distante anni luce dalla sua antica tradizione e una concezione del governo e della cosa pubblica che ci ha condotto dove ben sappiamo.
Alessandro Natta è stato, dunque, un segretario a metà: non per demeriti propri ma perché schiacciato dalla pesantissima eredità di Berliguer e, ovviamente, dall’importanza che ebbe la mossa di Occhetto dopo l’abbattimento del Muro di Berlino. Eppure, senza questo mite comunista ligure nulla sarebbe stato possibile, meno che mai la ventata di freschezza che coinvolse l’Unità e il suo splendido inserto satirico.
Alessandro Natta fu, insomma, un segretario di apertura e di cambiamento, un rivoluzionario che perseguiva anzitempo la cosiddetta via italiana al socialismo, definendosi, oltre che comunista, illuminista e giacobino, a testimonianza di un animo nobile, di un istinto libertario e della sua netta contrarietà verso ogni totalitarismo.
Fu l’anima irrequieta del comunismo italiano, alla costante ricerca di un orizzonte nuovo e pienamente autonomo, capace di porsi, al contempo, in contrasto sia con la svolta di Occhetto che con la Rifondazione comunista di Garavini e Cossutta, mantenendosi fino alla fine un battitore libero. Non rinunciò mai alle proprie idee, restando fedele agli ideali della gioventù e continuando a pensare, ad analizzare a riflettere e a guardare avanti, anche mentre altri si spartivano il potere e, di fatto, rinunciavano all’anima in nome di un modernismo di facciata. Di dirigenti così, forse, non ne nascono più.
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