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Voto in Ecuador, vincono le banche. Fine del socialismo andino

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Guillermo Lasso, ex banchiere e leader di Creo (Creando Oportunidades) sarà il nuovo presidente dell’Ecuador, subentrando a Lenin Moreno. Una vittoria (52.49% contro 47.51%) ottenuta sul candidato correista Andrés Arauz, che aveva vinto nettamente il primo turno di febbraio, alimentando fallaci speranze per il ripristino dell’oficialismo – il socialismo andino incentrato sul welfare e lo sviluppo economico svincolato dal sistema bancario e dal Fmi – che Rafael Correa aveva sostenuto per due mandati fino alle dimissioni del 2016 e all’avvento del suo successore Moreno nell’anno seguente.

Lasso ha rovesciato i sondaggi che lo davano perdente anche se di misura, contando sulla sua maggiore esperienza – era la sua terza candidatura, la seconda proprio contro Moreno nel 2017 – sull’inconsistenza di Arauz (su cui ha pesato l’ombra lunga di Correa) e sul supporto della stampa che conta, soprattutto El Universo di Emilio Palacio, acerrimo nemico dell’ex presidente. Questa vittoria è anche la rivincita delle banche contro la tassazione e i prelievi forzosi voluti da Correa per coadiuvare i programmi di sostegno sociale.

Per l’Ecuador non cambia nulla in realtà: il lavoro sporco lo aveva già fatto il Lenin fasullo, svuotando di significato il partito del suo predecessore e minando le fondamenta del suo precedente operato.

Il primo turno elettorale di febbraio rimarrà comunque falsato da un’accusa ben argomentata da parte del leader indigeno Yaku Pérez, del Movimiento de Unidad Plurinacional Pachakutik, che pur avendo chiuso con quasi 1.800.000 voti si è visto escludere dal secondo turno a favore di Lasso. Per protesta contro il Consejo Nacional Electoral che ha negato il riconteggio del 100% delle schede nella provincia di Guayas e della metà di quelle inerenti ad altre 16 dove lo spoglio è stato contestato, gli indios han marciato su Quito.

Le etnie in Ecuador, pur essendo una minoranza rispetto alla Bolivia, sono sempre state articolarmente agguerrite contro i soprusi. Ai tempi di Correa, si schierarono compatti contro lo sfruttamento del bacino della riserva naturale di Yasuní, che insieme alle Galápagos raccoglie le biodiversità animali più interessanti del continente.

E si deve al sacrificio di alcuni di loro, uccisi dalla polizia di Moreno, se le controriforme – aumento dei costi del carburante, rimozione degli incentivi e riduzione delle tutele sul lavoro – vennero bloccate e il suo autore fu costretto a lasciare la capitale in seguito alle contestazioni.

Questa tornata elettorale potrebbe aggravare un quadro pandemico che aveva già raggiunto un nuovo picco la settimana scorsa, con la saturazione pressoché totale delle terapie intensive nelle province più colpite, quali Pichincha e Guaya, la cui capitale Guayaquil, oltre ad essere la città più popolata, è anche un crocevia di ritorno in patria degli ecuadoriani che lavorano all’estero, attraverso i quali il virus è stato importato. Finora il Covid ha contagiato 350.000 persone falciando 17.275 vite.

Le misure adottate da Lenin Moreno hanno ricalcato lo standard regionale, che punta sul coprifuoco alle 20 e sul lockdown per sminuire la portata del contagio.

Misure che, come ho già scritto per il Brasile e la Giamaica, non solo rimangono meri palliativi, ma addirittura diventano peggiorative quando ci troviamo di fronte a un quadro di housing degradato, come nel caso di favelas, ghettos e ranchitos, cioè agglomerati suburbani dove la promiscuità della gente forzata a convivere in spazi ristretti – e in condizioni igieniche precarie dovute alla mancanza di rete fognaria e presidi sanitari locali – causa durante la chiusura le violazioni di quel distanziamento sociale descritto come la panacea del male.

Trascurando di sanare invece le piaghe principali nelle quali il virus si annida e fa man bassa: trasporti pubblici obsoleti e sovraffollati, e posti di lavoro senza un protocollo sanitario ben definito.

Oltretutto in Ecuador le restrizioni sono state sospese alla mezzanotte di venerdì 9 aprile, per consentire l’allestimento dei seggi elettorali lungo il paese. E nessuna delle parti in causa ha sollevato la benché minima eccezione: sia Guillermo Lasso che Andrés Arauz hanno deliberatamente ignorato, con il beneplacito di Moreno, la denuncia da parte del Registro Civil del 35% di aumento delle disfunzioni sanitarie nei giorni precedenti al voto. Tuttavia, forse sotto dettatura di Correa, la campagna elettorale di Arauz – e di conseguenza quella di Lasso – si è trasferita in parte sui social, che sono rimasti letteralmente intasati dagli insulti reciproci. Come le terapie intensive.

Entrambi i candidati avevano snocciolato le consuete promesse pre-voto: Arauz garantendo che, se fosse stato eletto, avrebbe marciato di gran carriera al ritmo di due milioni di vaccinazioni mensili.

E Lasso, come su un tavolo da poker, aveva rilanciato forte, sparando la cifra di 9 milioni di ecuadoriani vaccinati entro 100 giorni.

Tutte balle. In realtà finora sono state somministrate solo 182.329 prime dosi, e le seconde si fermano a 62.537, nonostante le previsioni di consegna di due milioni di fiale tra marzo ed aprile.

Come ho già scritto l’anno scorso, quando l’Ecuador arrivò alle cronache internazionali per lo scandalo dei cadaveri lasciati per strada a causa degli obitori strapieni, dopo il terremoto del 2016 e le dimissioni di Correa la sanità ecuadoriana, che era il fiore all’occhiello dell’America Latina e gratuita anche per gli stranieri, subì un crollo verticale.

Con Moreno, la nazione andina ha visto polverizzato il suo patrimonio in termini di riserve monetarie e welfare sociale, venendo anche meno quella solidarietà culturale che la Revolución Ciudadana del partito di Correa, Alianza País, aveva assicurato ai suoi amministrati.

Per cui ancora una volta, le promesse dei politici di turno non sono altro che “Parole, parole, parole” come cantava Mina.

Basate sul nulla assoluto, e contraddette dalla realtà dei fatti.

(Ripreso da il Fatto Quotidiano Blog: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/04/13/ecuador-la-vittoria-del-presidente-lasso-decreta-la-fine-del-socialismo-andino/6162983/ )

Analisi post-elettorale

A parere di alcuni commentatori, tutte le elezioni che si svolgeranno nei prossimi 2-3 anni saranno “figlie del Covid” per cui si vedranno poche vittorie delle attuali forze governative e molte opposizioni trionfare.

Fuerza Compromiso Social e il suo leader Andrés Arauz sono visti come restauratori di quel “correismo” che almeno un terzo degli elettori osteggia. Forse per questo Lasso al 2o turno si è preso parte dei voti del candidato indio, contro la logica corrente.

https://www.eluniverso.com/noticias/politica/varios-factores-determinaron-caida-andres-arauz-entre-primera-segunda-vuelta-electoral-nota Si sarebbe comunque potuto evitare che un banchiere salisse al potere, confermando il ruolo fondamentale che il Fondo Monetario avrà sul futuro dell’Ecuador, solo se i voti indigeni (quasi due milioni) fossero confluiti nel secondo turno su Arauz.

Così non è stato, poichè la ruggine che avevano nei confronti di Correa non si è mai scrostata, tant’è che il suo candidato non ha appoggiato il riconteggio nel primo turno contestato da Yaku Pérez.

Miopía sua (appunto, non è Correa) e testardaggine degli indios che sono di natura vendicativa. Non so se per ripicca abbiano poi votato per Lasso nel 2° turno (Pérez aveva dato indicazioni per deporre scheda bianca nelle urne) ma di sicuro non lo hanno fatto per Arauz.

E il banchiere ringrazia, anche se non e stato lui ad opporsi al riconteggio voti, bensì il Comitato Elettorale che era influenzato da Moreno, al quale bruciava ancora lo smacco dello scorso anno quando fu costretto a scappare da Quito come un ladro a causa della contestazione indigena.

Lasso ha promesso che si opporrà alla eventualità che gli interessi sul prestito da restituire a FMI vengano contabilizzati a livello fiscale, pur impegnandosi a ripagarlo per intero. Tuttavia, CREO, il piccolo partito del nuovo presidente, occupa la sezione minoritaria dei seggi al Congresso ecuadoriano, dove Arauz e I suoi detengono ancora la maggioranza.

Per cui Lasso sarà costretto comunque a trattare con loro a fronte delle decisioni da prendere, prima fra tutte quella propugnata dal banchiere di ripagare per intero il mostruoso debito di 82.000 milioni di dollari a FMI in soli quattro anni.

Il che vorrebbe dire depauperare le casse dello Stato irrimediabilmente.

Intanto, con la creazione della Caja Chica (Petty Cash) cioè un fondo minore di supporto alle emergenze sociali e al welfare, il nuovo presidente ha compiuto il “capolavoro” a cui miravano i suoi grandi elettori votandolo: trasferire i prelievi fiscali e le tasse sulle transazioni finanziarie delle banche, dalla cassa di queste alle tasche dei contribuenti: a breve infatti ciò che rimane del Bono Desarrollo Humano – cioè il fondo di accantonamento per pensioni minori e donne single con figli a carico che sotto Correa era stato sostenuto dai prelievi forzosi bancari – sarà finanziato dalla ritenuta di un quinto delle entrate dei cittadini.

Non è dato di sapere per ora se sarà una flat tax (cioè uguale per tutti, benestanti o meno) oppure differenziata per categorie.

Il contentino de l’adeguamento del salario minimo – portato a 500 USD al mese – è solo un pannicello caldo dopo 4 anni di blocco delle retribuzioni a fronte del 50% di aumento del costo della vita dai tempi di Correa.

E della distruzione del welfare, sanità pubblica innanzi tutto.

Conclusioni

Lo scenario che sta maturando con l’avvicendamento dei governi a livello planetario, è frutto della pandemia.

Non c’è da stupirsi quindi se oggi su una piccola nazione quale l’Ecuador – che tranne la lunga parentesi di Correa durata 10 anni è sempre stata sotto il tallone del Fondo Monetario nel corso della sua storia – sia un banchiere a governare.

In fondo da noi in Italia è successo lo stesso;

Draghi, l’uomo che per eccellenza rappresenta il sistema bancario a livello europeo, sta lì a dimostrare che non ci saranno cambiamenti se non a livello peggiorativo.

Difatti, messo alla porta Conte, è rimasto al suo posto uno dei ministri piú contestati.

La riconferma di Roberto Speranza e Brusaferro ai vertici della Sanità (dietro la regia OMS di Ranieri Guerra) dimostra che siamo capaci di mandare giù dei rospi mastodontici, nonostante Report abbia ampiamente dimostrato la censura tramite intimidazioni di quel rapporto OMS che denunciava l’inadeguatezza del piano pandemico italiano mai aggiornato dal 2006.

Ciò ha portato all’insufficienza dei dispositivi di sicurezza e delle terapie intensive, aggravando i numeri della strage.

Quanti di quei 115.000 connazionali vittime del virus si sarebbero potuti salvare se i vertici sanitari avessero agito professionalmente? Non stupiamoci quindi di ciò che succede in Brasile o in Ecuador.

Noi comunque riusciamo a fare di peggio.

Sempre.


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