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Un’altra tragedia del mare. Noi giornalisti non possiamo permetterci di dimenticare in 24 ore

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Meno di 24 ore per dimenticare. È il tempo che occorre per mettere sotto al tappeto l’ennesima strage di esseri umani avvenuta in mare. Una delle più drammatiche non solo per il numero di vite perdute ma anche per le modalità con le quali è avvenuta e portata a conoscenza . I 120 o 130 che erano a bordo di uno dei soliti gommoni potevano essere salvati poiché di loro si sapeva che erano in difficoltà da almeno. 27 ore prima del ritrovamento dei corpi.
27 ore in cui nessuna autorità compente  interpellata ha trovato  il modo e il senso umano per soccorrere.
È così che il mare Mediterraneo resta ancora un ‘ enorme tomba liquida, deserta e silente davanti ad una Libia teatro di grandi movimenti politici ed economici internazionali  dove i migranti sono sempre più un ostacolo per alcuni e oggetto di scambio per altri.

Ci sono tante domande che un giornalista che si occupa di immigrazione si dovrebbe fare cercando di ricostruire la dinamica di quanto accaduto.  Perché questo naufragio arriva in un momento ben preciso in cui i governi di mezzo mondo trattano con quello libico per ottenere qualcosa dalla riunificazione di questo paese abbattuto da anni di guerra civile e di faide interne ma fondamentale nello scacchiere del Mediterraneo porta d’Europa.   Quest’ultima provata da un anno di pandemia e conseguenti forti tensioni sociali.

Uno scenario in cui i flussi migratori non si fermano restando tra i primi temi nelle agende politiche dei vari paesi , soprattutto quelli che affacciano sul Mediterraneo.  Eppure, quello che si cerca ancora di fare è nascondere i movimenti migratori con i loro vivi e i loro morti.
Il gommone salpato da Garabulli, Tripoli est, prima di affondare è stato messo in mare sapendo che non poteva farcela con quelle condizioni meteo: basta guardare il grafico di cosa stava passando sul mare libico in quelle ore.  E  ben sapendo che l’unica nave umanitaria operativa in zona non sarebbe mai potuta arrivare in tempo perché troppo lontana.

E allora si potrebbe ipotizzare che quelle persone sono state condannate a morte. Perché non interessano a nessuno: ostacolo da una parte, deterrente per ottenere chissà cosa dall’altra.

Oggetti inanimati che tali sarebbero rimasti se gli occhi degli operatori di una ong e una reporter a bordo non li ha avessero visti galleggiare e non avessero dato corpo alle ombre.
Una in particolare, con il capo chino sull’acqua, il tronco cinto da una ciambella nera ricavata da una camera d’aria, spostato lentamente dai flutti come  un pupazzo inanimato. Ma quello è un uomo che con molta probabilità è rimasto per ore aggrappato a quell’anello nero cercando di sopravvivere alle onde ma non retto all’ipotermia. Morto di freddo e stenti perché nessuno è arrivato in soccorso. Nè dalla Libia che dovrebbe per accordi nè da chi, quando i libici non intervengono, dovrebbe intervenire.
Sono passate 24 ore da questo naufragio che andrebbe analizzato e dibattuto ma già il silenzio si sta abbattendo su queste vittime . 24 ore è il tempo che l’umanità sta impiegando per metabolizzare la morte. Attenzione: lo stesso tempo che stiamo usando per metabolizzare i “nostri”  morti di Covid nei bollettini del giorno: i morti nelle ultime 24 ore…
Quello che noi giornalisti non possiamo permetterci però è di dimenticare in 24 ore. Di passare oltre e non approfondire perché dietro ad ogni naufragio, ad ogni vittima c’è la causa e i responsabili che hanno scatenato la tragedia. Mai come ora è tempo di non dimenticare.


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