Un verdetto che non fa solo giustizia, fa ‘storia’ nel nome di George Floyd

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Una piccola aula con i banchi degli imputati e gli scranni della giuria, gli uni di fronte agli altri. Il processo è finito, Il giudice legge il verdetto consegnato dai giurati, sette uomini e cinque donne, emesso all’unanimità: colpevole.
Il poliziotto Derek Chauvin si alza. Porge i polsi e si lascia ammanettare da un collega che lo porta via in un silenzio pesante, rotto solo dalle parole dell’avvocato che dice all’assistito: “Ci sentiamo presto”.
La porta del tribunale della stanza C1836 si chiude lentamente dietro di l’imputato, quasi a simboleggiare la fine di un’epoca, fatta di impunità per ‘uomini di legge e di ordine’ con il grilletto facile o, come nel caso di Minneapolis, un ginocchio usato come arma.
Quello che si è compiuto ieri, poco dopo le quattro del pomeriggio americano, è un atto di giustizia destinato a fare storia
La Giuria della Corte chiamata a giudicare l’uomo accusato della morte di George Perry Floyd, afroamerciano di 46 anni, lo ha condannato per tutti e tre i capi di imputazione a suo carico: omicidio di secondo e terzo grado e omicidio colposo. Rischia fino a 40 anni. Il giudice, Peter Cahill, dovrebbe emettere la sentenza con la pena comminata a Chauvin entro otto settimane.
Forse non tutto cambierà e neanche subito, ma la sentenza di ieri è destinata a essere una pietra miliare.
Una vera e propria boccata d’ossigeno nell’immenso mare delle discriminazioni razziali e delle violazioni dei diritti umani
Per ricordare quanto inumano sia stato il comportamento di Chauvin, ripropongo il corsivo che dedicai a George Floyd il giorno della sua lenta e angosciante morte.

Mi chiamo George Floyd e così sono morto

Sono confuso, ho paura, ho sbagliato.
Non dovevo usare quella banconota falsa, ma ero disperato.
Sono seduto nella mia auto, so di essere nei guai.
Li vedo dallo specchietto che si avvicinano.
Non mi muovo.
In quattro mi tirano fuori con la forza,
mi spingono contro un muro, finisco a terra.
Quando mi rialzo mi strattonano,
mi dicono che devo seguirli nella loro macchina,
oppongo resistenza, mi trascinano via, cado di nuovo.
Sono agitato, in tre mi sono addosso.
Uno di loro ha infilato il ginocchio tra la mia spalla e la testa.
Mi schiaccia il collo, comincia a mancarmi l’aria.
Poco a poco i miei polmoni iniziano a buttare fuori
quel poco che ne è rimasta in circolo.
Ho paura, ma soprattutto ho fame di ossigeno
e comincio a supplicare…
Fermati, fermati. Non ho fatto niente di serio…
Per favore, per favore, non riesco a respirare.
Per favore amico, per favore.
Non riesco a respirare.
Non ri- e- sco – a – re – spi – ra – re.
Non ho più la forza di dir nulla…
Non riesco a muovermi.
Ho finito l’aria.
Ho finito…
Mi sento schiacciato,
mi fa male il collo,
mi fa male lo stomaco,
mi fa male il petto.
Tutto fa male.
Mi stanno uccidendo.
Nell’ultimo anelito di vita mi sforzo, con ogni singola fibra,
di ingoiare almeno un po’ d’aria.
Ma non ce la faccio.
La frequenza cardiaca e ormai fuori controllo,
il cuore martella nelle orecchie.
Il sangue é ormai saturo di anidride carbonica,
le pupille sempre più piccole…
È buio. Forse sono morto, forse no…
Anzi no perché sento un liquido caldo
che bagna i pantaloni e scende lungo le gambe.
Il tentativo di far entrare quell’ultimo milligrammo d’ossigeno
nei polmoni ha fatto scoppiare il mio cuore.
Il mio cervello lentamente, troppo lentamente, inizia a spegnersi.
Nonostante ci abbia provato con tutte le mie forze a resistere sono morto.
Il buio e il nulla, infine, mi hanno ingoiato…
Per sempre.

George Floyd prima che una vittima di un abuso di potere, della violenza di un tutore della legge, era un essere umano, un figlio, un fratello, un marito, un padre.
Che sia morto per asfissia o per gli effetti combinati dell’essere bloccato a terra dall’agente accusato del suo omicidio, delle sue patologie pregresse (coronaropatia e ipertensione) e di qualche potenziale sostanza intossicante nel suo corpo, il suo decesso è stato provocato da quell’azione.
Per morire soffocato o riportare danni irreparabili, un adulto in buona salute impiega tra i 4 e i 6 minuti.
George Floyd, un omone di quasi due metri, ha resistito quasi 9 minuti, 540 secondi con un ginocchio che gli schiacciava il collo mentre disperato continuava a dire che non poteva respirare.
E il suo aggressore non era un criminale comune. No.
Era un poliziotto. O almeno questo diceva il suo distintivo.
Invece questo individuo, che già per 12 volte aveva commesso delle violazioni, persino un omicidio in servizio, ha assistito alla sua fine con le mani in tasca.
Eppure quello che stava morendo sotto al suo sguardo non era uno sconosciuto ma una persona con cui, quando non indossava ancora la divisa, aveva anche lavorato.
Un agente di polizia bianco che stava uccidendo un uomo nero sogghignando e guardando l’obiettivo di uno smartphone che immortalava per sempre quell’orrore.


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