Riletture. Lotta armata e resistenza diffusa nella provincia di Roma. Il contributo delle donne alla Liberazione

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Alcune donne che guardano con fiducia ad altre donne e da esse traggono forza, hanno praticato un’amorosa raccolta dei libri che storiche, filosofe, poete, narratrici, soggetto imprevisto nella storia della cultura, sono andate producendo in particolare dagli anni Settanta in poi. In questi giorni , cercando nei miei scaffali libri sulle donne nella Resistenza ho trovato un volumetto curato da Lucia Motti e Simona Lunadei dal titolo “Donne e Resistenza nella provincia di Roma. Testimonianze e documenti”, 1999. Il libro, probabilmente un’edizione limitata, è frutto di una ricerca promossa e finanziata dalla Commissione delle Elette della Provincia di Roma e con la collaborazione della Fondazione Istituto Gramsci – Onlus. L’idea nasceva dal desiderio di estendere a quella che oggi si chiama Area metropolitana una ricerca che alcuni anni prima era stata realizzata, su iniziativa del Comune di Roma, sulla partecipazione delle donne alla Resistenza a Roma nei terribili mesi dell’occupazione nazista e dei bombardamenti angloamericani (Donne a Roma,1943 -44, Memorie di un’indomabile cura per la vita, ed. Comune di Roma). La ricerca si inscrive sia nella tensione a un’innovazione nella storia delle donne e nella stessa storiografia della Resistenza sia nella tendenza alla valorizzazione della Resistenza nel Centro Italia, dopo che le prime ricostruzioni tendevano a limitare gli studi al Nord, all’Emilia e alla Toscana. La ricostruzione degli eventi nella provincia di Roma non è stato facile sia per i diversi sistemi di organizzazione degli Archivi sia perché le aggregazioni partigiane operavano in zone legate da un criterio di prossimità più che geografico amministrativo, con sconfinamenti tra comuni e province.

L’indagine comprende le zone di Civitavecchia, Castelli romani, Monterotondo, Anzio e Nettuno, Zona Prenestina, Monti Tiburtini e valle dell’Aniene. Una breve illustrazione di ciascuna zona territoriale in quel periodo precede le interviste a ventiquattro donne. Il quadro d’insieme è tracciato quindi da fonti orali, strumento storiografico delicato, la cui esistenza dipende dalla relazione che si crea tra chi vuole conoscere e chi racconta e più che un fatto costituisce un atto nel quale il ricordare e il raccontare dipendono dalla “ simpatia” di chi li sollecita e dalla sua disponibilità ad ascoltare. Il lavoro è quindi maturato in un clima culturale in cui la storiografia ha valorizzato questo tipo di fonte storica, ma ha anche ridefinito un campo di attività in cui contenere le diverse tipologie ascrivibili alla Resistenza. Non solo dunque la lotta armata, ma anche tutte le azioni clandestine come offrire ospitalità a fuggiaschi, perseguitati o prigionieri di guerra, diffusione di materiale di propaganda, organizzazione di strutture di difesa della popolazione civile, tutte azioni in cui le donne si sono distinte e che hanno posto le premesse della futura Italia repubblicana.

Le interviste ricostruiscono fatti, motivazioni scelte di donne che hanno preso parte all’ opposizione al nazifascismo con la lotta armata e delle tante che, singolarmente o in gruppi organizzati, hanno sostenuto con i propri comportamenti la resistenza, in piena consapevolezza dei rischi per sé e per i propri familiari. La ricerca non ha pretese di esaustività per la provincia di Roma, ma ha avuto il merito di rintracciare, pur con molte difficoltà, delle testimoni che per ragioni anagrafiche non si sarebbero potute interrogare ancora per molto, ma anche di ritrovare tracce significative dell’operare delle donne. Ciò grazie, come si è detto, a una riformulazione dell’idea di storiografia, non più basata sul un’idea di oggettività, neutrale e universale, che includeva nella sua stessa definizione l’esclusione delle donne. Alcune circostanze hanno favorito l’ espressività delle testimoni come il mutamento del clima politico che, con la fine della guerra fredda, ha consentito di esprimere critiche agli Alleati, per esempio per i bombardamenti alle popolazioni civili, critiche che nell’immediato dopoguerra avrebbero rischiato di rompere un delicato equilibrio tra le forze politiche.

Anche il mutato clima culturale, con l’affermazione del neofemminismo, influenza il racconto delle donne, dando spazio a discorsi sulla fisicità e il corpo offeso. Carla Capponi ad esempio ricorda che tutte le compagne impegnate nella lotta non avevano le mestruazioni, come le donne nei lager. Viene poi messa a tema non solo la vulnerabilità dei corpi delle donne, ma anche dei compagni o dei nemici e la difficoltà ad accettare la morte e la pena anche quando è il nemico a soffrirne. L’autorappresentazione che emerge dalle testimonianze è complessa: l’essere spinte a ricordare e a raccontare al di fuori da un ambito familiare e informale certamente le stimola, nello stesso tempo le porta a una sommessità e a un sottrarsi ad un ruolo di protagoniste, con la sottolineatura della naturalità delle loro scelte e della coralità in cui si inscrivevano. Ciò nulla toglie alla consapevolezza e alla assunzione dei rischi con cui hanno agito. Spesso scegliere da che parte stare per quelle donne è stato determinato da una genealogia famigliare antifascista, anche femminile: madri, nonne, zie le hanno ispirate.

C’è talvolta nei racconti una fierezza per i gesti compiuti che include lo sprezzo del pericolo per sé, costo necessario per l’affermazione della dignità personale o dettato dalla convinzione che senza la liberazione non ci sarebbe stata salvezza. Simulazione e dissimulazione sono armi lucidamente assunte nella lotta contro il nemico in numerose circostanze. Clara D’Agostini racconta come giocando d’astuzia coll’ufficiale nazista che aveva arrestato il marito, riesce a sottrarlo alle Fosse Ardeatine o le sorelle Taddei raccontano il sotterfugio con cui, appena adolescenti, riescono a sottrarre ai nazisti gran parte del pesce, alimento prezioso in quei momenti, che volevano sequestrare alla popolazione. Non si raccontano solo circostanze di sofferenza e di pericolo, ma si ricordano momenti più intimi e profondi di condivisione e di speranza con i/le compagn*. Adele Bei ricorda quando sul monte Tancia intonavano i canti della tradizione della lotta e lei più anziana li insegnava ai più giovani per i quali costituivano una novità. E Carla Capponi ricorda quando declamava poesie alla giovane Alida Degano. Per alcune, come Lucia Ottobrini, c’è la confessione del dolore quasi insopportabile del ricordo.

Carla Capponi e Lucia Ottobrini provenivano dai Gap romani e tutte e due si erano dovute rifugiare nelle campagna per sottrarsi alla cattura. Entrambe esprimono con accenti simili il sollievo provato dal passaggio dalla durissima esperienza della clandestinità a quella della lotta armata in una banda organizzata su un territorio di montagna. Ricorda Lucia Ottobrini: “I gappisti erano persone che dovevano stare attente a tutto … Ancora oggi, io, quando c’è un assembramento io sto sempre in guardia … Invece lì mi sono trovata proprio in mezzo alla gente, in mezzo al popolo, a questa povera gente … E in questa esperienza comune ho trovato la pietà. Io sono stata molto fortunata, perché ho sempre trovato bravissima gente”. Oltre alla più ristretta partecipazione alle bande armate in queste zone la partecipazione delle donne è stata fatta prevalentemente di collegamenti, di informazioni, di trasporto di armi e viveri con mobilità sul territorio, ma una partigiana di vasta esperienza come Carla Capponi non manca di sottolineare la pericolosità dell’azione delle staffette e delle fiancheggiatrici. Come dimostrano le interviste la vita di queste donne è stata segnata dalla “passione politica” e il loro impegno non è stato episodico, ma è continuato tutta la vita nei partiti o nelle formazioni femminili, confermando l’importanza di quell’ esperienza per la formazione di un ceto politico femminile nel dopoguerra.

Un altro meritorio obiettivo del lavoro , che reca in appendice un percorso ragionato attraverso le fonti archivistiche e bibliografiche e una serie di documenti d’archivio, è quello di suggerire dei percorsi didattici utilizzando il materiale compreso nelle due sezioni, oltre alle testimonianze, per i quali vengono fornite delle piste di lavoro differenziate e rivolte agli alunni della scuola primaria e secondaria di primo e di secondo grado.


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