Grieta, è una delle rare parole (l’unica?) ricorrenti nel lessico di entrambe le coalizioni politiche che senza misericordia né tregua, si disputano il potere e le coscienze dei 45 milioni di persone iniquamente distribuite tra il rio de la Plata, le Ande e lo stretto di Magellano (ben oltre un terzo sono concentrate nella provincia di Buenos Aires). Significa fessura: separa due parti di una medesima entità, spiega il dizionario Maria Moliner. E’ il nome della cosa: storici conflitti di classe dentro opposte visioni del mondo, città vs. campagna, blanquitos e negritos distinti ma non separati (nelle contrapposte nomenclature, echi retorici di un razzismo che per la verità è stato da decenni sostanzialmente dissolto in un crogiuolo antropologico-culturale ottimamente riuscito).
Non si tratta di folclore semantico. La parola è ispano-americana, ma il fenomeno socio-politico che indica è generato dall’aggravarsi delle disuguaglianze e la sua diffusione va ben oltre i confini linguistici e della geografia. In Argentina inquina con pregiudizi ed esasperazioni i contrasti fisiologici della lotta politica fino a distorcere in molti casi la realtà dei fatti, dimensioni e circostanze. La prospettiva elettorale (primarie il prossimo agosto, parlamentari di mezzo termine in ottobre, COVID permettendo) ha portato al parossismo la spirale delle reciproche aggressività e intransigenze. Con effetti anche autolesionistici, in quanto per sua natura la grieta non ha contorni netti, impermeabili, e gli estremismi tendono a riprodursi e penetrare anche all’interno di ciascuna delle opposte coalizioni, corrodendone le incerte coesione e stabilità.
Sia nella maggioranza di centro-sinistra, il Frente de Todos (FdT), egemonizzato dal movimentismo peronista, storicamente eterogeneo per ideologia e militanza; sia nell’opposizione di centro-destra, Juntos por el Cambio (JxC), montano i dissidi interni. JxC appare di fatto diviso in tre frazioni: gli ultimi esponenti dell’antica Union Civico-Radical (UCR), alla ricerca di visibilità e sopravvivenza; i fedelissimi dell’ex presidente Mauricio Macri, sempre più preoccupato da vicende giudiziarie personali; e una parte rilevante di ex alleati che per allontanarsene si stringono adesso al suo ex numero 2, il liberal-conservatore Horacio Larreta, rimasto a governare la capitale Buenos Aires. Nel peronismo prendono intanto corpo le diversità di vedute tra il capo dello stato, Alberto Fernandez, e la sua vice, l’ex presidente Cristina Kirchner.
L’informazione, sostanzialmente controllata dall’establishment, accusa incessantemente Cristina di corruzione, arricchimento illecito e nefandezze varie. Senza tuttavia che a distanza di anni, con nel mezzo l’intero mandato del governo di Mauricio Macri, nessuna delle dieci incriminazioni che l’hanno portata in tribunale abbia ancora prodotto una sentenza definitiva. Mentre crescenti perplessità e critiche caustiche suscitano un sistema giudiziario palesemente esposto al rischio dell’arbitrio anche per l’effervescente protagonismo alla “brasiliana” di alcuni dei suoi esponenti. Cosi come la presunta debolezza di Alberto per non frenare l’interventismo politico della vice, che da parte sua non nasconde la propria insoddisfazione non solo per la lentezza con cui il governo procede nelle riforme, bensì -lascia intendere- anche per la loro stessa concezione minimalistica.
La recentissima sostituzione al ministero della Giustizia di una titolare notoriamente d’assoluta fiducia del capo dello stato, con uno non meno notoriamente sostenuto dalla sua vice, ha posto sotto gli occhi di tutti la concretezza del contrasto. Con la conseguente osservazione che pur essendone in questo caso protagoniste persone di legge (tutte avvocati e il Presidente anche docente universitario di diritto penale), non hanno potuto risolverlo sul terreno della filosofia del diritto, bensì su quello più prosaico dei rapporti di forza politica. Ambito che non gli toglie legittimità, ma conferma la constatazione di un’usura asimmetrica e precoce (al governo mancano ancora 9 mesi a metà mandato) tra i due principali soci della maggioranza di governo. Pur tenendo conto delle turbolenze che ricorrono nella dialettica interna alle coalizioni, pochi vi leggono un buon auspicio per il paese.
La grieta ha l’età dell’Indipendenza nazionale. L’hanno cominciata a scavare la cecità fisiocratica e razzista dei grandi latifondisti, le lotte fratricide tra i caudillos e il ribellismo eroico ma spontaneista dei gauchos. Lasciando alla massa degli immigrati italiani e spagnoli l’ingrato compito di dissodare le terre a mani nude. Poi ogni epoca ha avuto i suoi picconatori. Ciascuno dei quali ha in parte scelto e in parte subìto un dominus esterno che costituiva anche il massimo referente culturale: la Gran Bretagna dei porti aperti e la libertà di commercio garantita dalle sue cannoniere fino alla Seconda Guerra Mondiale, poi l’egemonia degli Stati Uniti. Lo spartiacque è Juan Domingo Peron, morto quasi mezzo secolo fa e nondimeno a tutt’oggi non solo confusa linea di confine tra conservatori e riformatori d’ogni sfumatura in Argentina, bensì anche dei diversi populismi in America Latina e nel mondo.
Lo scavo è profondo, tanto da poterci buttare dentro ogni questione, dalla coraggiosa e purtroppo luttuosa battaglia contro il Covid a quella contro la corruzione, all’economia estenuata dalla sua endemica sottocapitalizzazione, ai ritardi dello sviluppo che ne sono derivati, alla povertà che rigurgita sotto i colpi della pandemia… Dagli opposti bordi della voragine lo scambio di accuse è incessante e non sempre privo di validi argomenti. Ciò non vuol dire tuttavia che tutto sia uguale a tutto. Il debito pubblico -ad esempio- è enorme e condiziona irrevocabilmente l’intervento sociale e ogni proposito del governo. Le Nazioni Unite hanno rinnovato in queste ore l’allarme già lanciato al riguardo dalla Commissione per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL). Senza esserne l’unico, il governo di Mauricio Macri ne è oggi di gran lunga il maggiore responsabile.
Stupisce perciò numerosi osservatori, la nonchalance delle polemiche lanciate dall’opposizione macrista sulla “lentezza” con cui procedono le trattative in corso con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per la restituzione dei 44mila milioni di dollari prestati al precedente governo Macri, con modalità inedite e in violazione degli stessi protocolli dell’FMI. A condurre il negoziato è il responsabile dell’Economia, Martìn Guzmán, un super-specialista della materia, su cui ha compiuto studi internazionalmente riconosciuti. Meritandosi la fiducia del premio Nobel Joseph Stiglitz, che il celebre riconoscimento lo ha ricevuto per aver dimostrato che -al contrario di quanto recitano i rituali neo-liberisti-, i mercati non operano secondo gli equilibri ideali postulati dalla scuola classica, bensì nella più dubbiosa confusione e che la miracolosa “mano invisibile” di Thomas Smith semplicemente non esiste.
Esaurire l’opposizione nella quotidiana denuncia di subdole macchinazioni in ogni azione di governo (il lock-down contro il Covid per limitare le libertà personali, l’eventuale statizzazione di un’impresa fallita come l’alba dei soviet, l’isolazionismo dietro le difficoltà dei rapporti regionali, etc. etc.) e attribuire tutto a un peronismo che dal 1943 ha cambiato tante volte pelle senza smetterne mai nessuna, può risultare sterile e pericoloso. Oltre che una rappresentazione della realtà di scarso contenuto veridico. Certo, la grieta a una parte riflette lo spettro dello stato imprenditore (vorace, liberticida e inefficiente) e all’altra -specularmente-, il mostro della tendenza monopolica neo-liberista (cinica, onnivora e speculatrice). Ma come nel fiume di Eraclito, il tempo che vi scorre in mezzo potrebbe essere invece letto come l’impossibilità di rincorrere il passato e l’urgenza di misurare le sfide del presente per affrontarle.