BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

In ricordo di un partigiano calabrese morto nel Biellese

1 0

Se si esclude il campo fascista, fino ai primi anni ’90 si poteva scrivere solo di “lotta partigiana” o di “guerra di resistenza al nazifascismo”, perché la categoria di “guerra civile” era praticamente proibita dalla vulgata antifascista. Fu grazie allo straordinario lavoro storiografico di Claudio Pavone, Una Guerra civile(1991), che si potè guardare diversamente al sanguinoso conflitto tra italiani. Già la letteratura migliore aveva in qualche modo scritto su quegli anni con passione e disincanto (Fenoglio, Pavese o Calvino). Così come  anche le vicende personali di influenti intellettuali del dopoguerra – si pensi a Pasolini – ci segnalavano già la strada di profonde lacerazioni e contraddizioni nello stesso campo antifascista. Guido, il fratello minore, partigiano della brigata cattolica Osoppo – comandata da Francesco de Gregori, zio del cantautore – con nome di battaglia Ermes, venne ucciso, insieme al suo comandante e a decine di altri partigiani, a Porzus nel 1945, in una strage compiuta dai resistenti garibaldini, legati all’antifascismo titino.I funerali si tennero il 21 giugno 1945. Pasolini seguiva il feretro in vestito chiaro e per l’occasione compose un elogio funebre. Due mesi dopo, egli scriveva all’amico poeta Luciano Serra:“Essendo stato richiesto a questi giovani, veramente eroici, di militare nelle file garibaldino-slave, essi si sono rifiutati dicendo di voler combattere per l’Italia e la libertà; non per Tito e il comunismo. Così sono stati ammazzati tutti, barbaramente.”Come spiegarequesta apparente contraddizione. Lui comunista, quando l’amato fratello fu ucciso proprio da comunisti? Ce lo spiega il Centro Studi Pasolini di Casarsa: “In Friuli gli ultimi anni Quaranta sono anni molto difficili: da un lato le minacce dell’annessionismo jugoslavo, dall’altro i residui della retorica fascista rendevano confuse le tesi di coloro che si battevano per l’autonomia friulana. Pier Paolo nel 1947 è impegnato politicamente: inizialmente prende parte al Movimento Popolare per l’Autonomia Friulana dal quale però si discosta in un secondo momento, per le sopravvenute tendenze pragmatiche e filodemocristiane del Movimento. Matura in Pasolini l’adesione al Partito Comunista Italiano. Nella scelta comunista è decisiva la sensibilità per il mondo popolare che proprio negli anni del dopoguerra si consolida e si arricchisce. Le circostanze della morte del fratello Guido rappresentano invece una difficoltà da superare, pur essendo Pier Paolo convinto che l’episodio di Porzùs sia stato un evento eccezionale. Egli vede il comunismo come l’unica via per una nuova cultura, fondata sui valori umanistici e sull’interpretazione morale dell’esistenza.”

   Insomma, la guerra contro il nazifascismo fu durissima e feroce, con profonde contraddizioni anche nel campo resistente. Tuttavia, il cemento della libertà fu più forte di ogni conflitto ideologico e personale. Le stragi, la repressione, la violenza rinsaldarono comunque il fronte di coloro che combattevano per la liberazione dal nazifascismo.Lo storico Mimmo Franzinelliha scritto un libro importante, Tortura, storie dell’occupazione nazista e della guerra civile (2018), che lascia sgomenti. Si conoscevano molte storie di antifascisti torturati, si sapeva di quali strumenti si avvalessero la polizia nazista e le bande repubblichine per estorcere una confessione agli antifascisti e ai partigiani: elettrodi, nerbi di bue e la cosiddetta “ tortura dell’acqua.”Occorre misura, come fa Franzinelli, nel trattare un tema così delicato perché spesso le stesse vittime (specie se donne) si chiusero nel riserbo preferendo dimenticare i trattamenti umilianti. Così come può essere che altri si siano inventati sevizie per passare per martiri, e allo stesso modo è accaduto che moltiabbiano parlato.Nonostante tutto, non pochi trovarono la forza di resistere alla violenza e andare dignitosamente alla morte. Tra i tanti casi del genere vogliamo oggi ricordare un misconosciuto ragazzo calabrese di appena venti anni,Basilio Bianchi. Lo facciamo grazie anche alla ricostruzione che ne fece Tavo Burat.

L’8 settembre 1943 è lo spartiacque tragico che apre la strada ad una nuova Italia. Quella che, dopo due anni di aspra guerra, ci consegna la Costituzione repubblicana, scritta con il sangue di migliaia di combattenti caduti per affermare i valori di democrazia, di libertà e di giustizia sociale.Basilio Bianchi, soldato di leva in Piemonte, si trova di fronte come centinaia di migliaia di soldati italiani sui vari fronti di guerra ad un fatto inaspettato: l’armistizio. La stanchezza di una vita militare lunga, dura e mal motivata sta portando la gran massa dei soldati alla convinzione che armistizio, fine della guerra e ritorno a casa siano la stessa cosa. Non è così, purtroppo. E Basilio è uno dei primi a capirlo.Ha scritto Italo Calvino in un suo scritto del 1946: “Cos’è l’Odissea? E’ il mito del ritorno a casa, nato nei lunghi anni di “naja” dai soldati portati a combattere lontano, dalle loro preoccupazioni di come faranno a tornare, finita la guerra, dalla paura che li assale nei loro sogni di non riuscire a tornare mai, di strani ostacoli che sorgono sul loro cammino. E’ la storia degli 8 settembre, l’Odissea, la storia di tutti gli 8 settembre della Storia: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici.”Fra due poli si trovano, dunque, ad oscillare i soldati come Basilio: corsa al rifugio conosciuto e sicuro o apertura al nuovo. Il calabrese Basilio Bianchi in quella terra non sua, sceglie la seconda strada, quella dell’incertezza, ma anche delle nuove prospettive e possibilità che indicava.Al dottor Albo, un medico suo compaesano, che lo incontra, lassù in Piemonte, a distanza di pochi giorni dall’ 8 settembre e lo sollecita a tornare a casa, Basilio risponde che ha scelto di salire in montagna coi partigiani.E’ scritto nei testi dell’Istituto storico della Resistenza di Biella:“E’ da riconoscere a Basilio Bianchi di aver scelto la guerra partigiana in tempi in cui essa era ancora in fase embrionale, essendo ancora molti gli ex militari che rimanevano in clandestinità in attesa degli eventi, alcuni dei quali avrebbero aderito alla resistenza in tempi molto successivi”.

Dicembre 1943.Mancano pochi giorni a quello che per l’Italia è il quarto Natale di guerra. Le grandi aspettative di vittoria che hanno accompagnato l’entrata del nostro paese nel conflitto, nel giugno del 1940, sono ormai del tutto svanite e la penisola è diventata un immenso campo di battaglia sul quale si fronteggiano angloamericani e tedeschi.Il paese è anche diviso al suo interno tra coloro che hanno scelto di rimanere fedeli a Mussolini e all’alleanza con la Germania, e coloro i quali, decisi ad opporsi al ritorno del fascismo e desiderosi di cacciare dall’Italia i tedeschi, hanno imbracciato le armi e sono saliti in montagna: si tratta di una vera e propria guerra civile, il cui livello di crudeltà e spietatezza è destinato a salire nei mesi a venire.Il Biellese è una delle aree in cui il movimento di resistenza armata si è organizzato fin dai giorni immediatamente successivi all’armistizio dell’8 settembre; sul territorio sono presenti sei distaccamenti partigiani che contano un centinaio di uomini, determinati ma male armati. Dopo il ritorno di Mussolini dalla Germania, a Biella sono ricomparsi i fascisti, e sono arrivati anche i tedeschi. La vita va avanti, pur tra mille difficoltà; sulla città incombe una opprimente cappa di preoccupazione e angoscia. I partigiani incitano gli operai delle fabbriche a scioperare, assaltano i presidi dei carabinieri per recuperare le armi, cominciano ad attaccare i fascisti, non esitano addirittura a spingersi fin dentro Biella per mettere fuori uso le rotative del giornale fascista “Il Lavoro Biellese”. Intanto gli scioperi si estendono: dopo quelle della Valsesia e della Valsessera, anche le fabbriche della Valle Strona e del Biellese occidentale si fermano. Il comando germanico di Vercelli invia a Biella una compagnia a rinforzo della guarnigione presente in città: i nazisti sono ancora convinti che i “ribelli” possano essere dispersi senza troppo sforzo. Martedì 21 dicembre 1943. Di prima mattina un ufficiale e un graduato,accompagnati da un capitano dei carabinieri, si dirigono su due automobili verso Tollegno, decisi a far sospendere lo sciopero in atto alla Filatura. Quando le vetture raggiungono il bivio per Pralungo vengono bersagliate da numerosi colpi di fucile.Gli uomini a bordo tentano di reagire ma i partigiani tengono sotto tiro la strada da posizione dominante e così lo scontro si risolve a loro favore: i tedeschi rimangono uccisi, mentre l’ufficiale dei carabinieri viene catturato per essererilasciato qualche ora più tardi.A peggiorare le cose si aggiunge, intorno a mezzogiorno, la morte di un altro ufficiale germanico, freddato a colpi di pistola da uno sconosciuto sulla salita di Riva. La rappresaglia è inevitabile. Organizzati in una colonna motorizzata, i tedeschi tentano di risalire la Valle del Cervo, ma trovano resistenza, e durante uno scontro a fuoco nei pressi di Pavignano catturano due partigiani, il diciottenne Alfredo Baraldo e Basilio Bianchi, rimasti dietro per proteggere la ritirata dei loro compagni.Essi vengono condotti a Biella per essere interrogati.Nella cittadina piemontese, intanto, Angelo Cena, che tutti chiamano Giolino, proprietario della trattoria “Porto di Savona”, mentre sta parlando con la moglie e le figlie, viene colpito a morte da  raffiche di mitra tedesche che investono il locale. Le SS fanno poi irruzione all’interno del locale, afferrano Francesco Sassone, un maturo manovale e lo portano via. Gli spari richiamano l’attenzione di Carlo Gardino, un vecchio fattorino di farmacia, che viene subito catturato insieme ad altri tre passanti: il contadino Norberto Minarolo,l’operaio Pierino Mosca, e il marinaio in licenza Aurelio Mosca.I sette prigionieri trascorrono una notte segnata da sevizie di ogni genere; la dose maggiore di violenze la subiscono i due partigiani, Alfredo Baraldo e Basilio Bianchi, perché i tedeschi vogliono che parlino, che dicano chi sono e dove si trovano i loro compagni. Testimonierà il sopravvissuto Baraldo: “Battevano sempre, con lo staffile di gomma, calcio del fucile, battevano sempre, poi uno per volta ci portavano sopra, dove c’era l’interprete per interrogarci, chiederci tutte quelle cose e lì giù botte. Soltanto interrogatori e botte… e niente da fare!” Niente da fare: i due non parlano.I cinque ostaggi civili invece implorano la grazia. I tedeschi vogliono vendetta per i loro camerati uccisi; ed è necessario dare alla popolazione una dimostrazione di forza.La mattina di mercoledì 22 dicembre 1943 i prigionieri sono condotti sul luogo dove saranno fucilati: piazza San Cassiano, detta anche “piazza del Gallo”; giunti sul posto, i sette vengono schierati davanti alla facciata dell’albergo: racconta ancora Baraldo: “Nessuno parlava. Forse per le botte e i lividi che dolevano o per il terrore, nessuno riusciva ad aprire bocca. Avevamo visto gente lungo il corso, che guardava ed erano anche i tedeschi che costringevano a fermarsi e a guardare quello che stava succedendo. C’era gente anche alle finestre che si affacciavano sulla piazza.”Il plotone d’esecuzione si schiera. I dodici militari che lo compongono puntano i fucili, attendono l’ordine di aprire il fuoco; ai condannati non è concesso neppure il conforto di un sacerdote. La scarica di proiettili squarcia l’aria, i sette uomini si accasciano sul selciato. I tedeschi se ne vanno, senza accorgersi che uno dei fucilati è solo ferito. È, appunto, il partigiano Alfredo Baraldo.E’ scritto nella scheda di compilazione dell’Istituto storico per la Resistenza:“Basilio Bianchi, nato il 12 novembre 1924 a Grimaldi (CS), ivi residente, già soldato nel 53° reggimento di fanteria di Biella, sbandato dopo l’8 settembre 1943 e entrato nel distaccamento “ Mameli”, poi V divisione Garibaldi, II brigata “Angiono”, partigiano.

Una postilla

Saggio storico sulla moralità nella Resistenza è il sottotitolo di Una guerra civile di Claudio Pavone. Può sembrare un dettaglio poco significativo, ma che invece dice tanto: nella Resistenza, non della Resistenza. A significare che, secondo l’ex partigiano Pavone, la resistenza non era stata “morale” per definizione. Che durante i venti mesi dell’occupazione tedesca e della guerra civile, la moralità dell’azione partigiana era stata una conquista piuttosto che una prerogativa. Che era il risultato di un percorso, piuttosto che garanzia a priori. Gli eroi della Resistenza non erano nati belli e fatti, ma si erano costruiti nel tempo, attraverso esperienze ed errori. Come tutti i comuni mortali. Uomini, non eroi.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21