Un anno fa – come riportato ampiamente all’epoca da il manifesto (edizione del 22 febbraio 2020)- l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni condannò la Rai, comminandole una sanzione pecuniaria di un milione e mezzo di euro, per la presunta violazione di diversi punti del contratto di servizio. Si tratta, com’è noto, dello strumento pattizio che regola i rapporti tra il servizio pubblico e lo stato.
Già in prorogatio e in un’ulteriore fase di riflusso moderato (quello progressista ancora non si vede, per dirla con Altan), l’Agcom con la delibera n.69/20/CONS se la prese con l’azienda di viale Mazzini. Certamente, laggiù peccati e peccatori non mancano. Si potrebbe eccepire sui numerosi limiti di un’offerta assai omologata e viziata nei palinsesti dal predominio degli agenti, che decidono spesso format ed ospiti delle trasmissioni. Si potrebbe, ancora, tracciare un bilancio dell’attuale gestione, ormai alla conclusione della sua parabola; riflettere su cosa sia il bene pubblico da tutelare nell’età crossmediale e della rete.
C’è molta materia. Tuttavia, il rigore delle valutazioni deve sempre prevalere sulle fiammate occasionali, frutto di valutazioni per lo meno superficiali. Si addebitavano in quell’atto del 2020 colpe paradossalmente minori rispetto a ciò che emerge nella quotidianità del male: e non solo nelle reti pubbliche, bensì nell’insieme di una televisione generalista spesso squilibrata e dimentica della par condicio: un vecchio stagionato macchinario sorretto solo dall’offerta di fiction o dei grandi eventi come il festival di Sanremo. E persino il calcio è approdato su altri lidi.
Torniamo agli errori addebitati. Toccavano una battuta del Corona allora ospite fisso di Carta bianca o Gad Lerner reo di non aver permesso il contraddittorio in un programma sui migranti provenienti dai campi di tortura libici (con chi, con gli scafisti?) o una volgarità di qualche programma. O il Tg2 Post, ma senza neppure prenderne in considerazione la quotidiana predisposizione alla parzialità. E via di questo passo.
La stessa Autorità si era mostrata più volte insensibile ai richiami e alle critiche su vicende di ben altro spessore. Eppure, il consiglio uscente sancì a maggioranza che la Rai andava buttata agli inferi, fosse pure per colpe lievi, a prescindere.
Non dimentichiamo che, parallelamente, veniva approvata un’altra delibera contro la pratica del dumping pubblicitario, dove – in verità- fu maestra cattiva storicamente Fininvest-Mediaset.
La sentenza del Tar del Lazio del 29 marzo scorso è asperrima. Si contestano, per esempio, il mancato coinvolgimento della concessionaria nel procedimento, nonché l’asimmetria tra gli addebiti e i richiami alle normative poste a base dell’intervento coercitivo. Peraltro, l’evocato testo unico del 2005 dell’epoca dell’ex ministro Gasparri è stato dichiarato variamente illegittimo dalla corte di giustizia di Lussemburgo e la stessa legge di delegazione europea in approvazione alla camera dei deputati ne chiede il superamento.
Insomma, una bocciatura piena.
L’Agcom probabilmente ricorrerà. Ma la ferita non è facilmente recuperabile. Spetterà all’attuale consiglio, presieduto da Giacomo Lasorella, ripristinare la credibilità perduta. Tutto ciò richiede misure concrete, come la scelta di dotarsi di un monitoraggio puntuale delle trasmissioni, con pubblicazione dei risultati almeno quindicinale. Altrimenti, il quadro diventa oscuro e aumenta il pericolo dell’arbitrarietà.
Torniamo un attimo al clima di un anno fa. Allora, dalle fila del partito democratico e di Italia viva, si levò un plauso surreale, con annesse richieste di dimissioni dell’amministratore delegato Fabrizio Salini.
Insomma, che lo schiaffo del Tar sia almeno una salutare sveglia per il dibattito politico, troppo distratto rispetto ad argomenti così delicati.
Ora, quando scocca l’ora del rinnovo del consiglio di amministrazione del servizio pubblico, riprendere in mano i dossier e rimettere in ordine gli addendi è davvero importante. O la storia dei media deve essere fatta dai, pur encomiabili, Tar?