Nell’esercizio del suo lavoro i il giornalista si attiene scrupolosamente alle sue regole deontologiche, dalla ricerca delle fonti, che deve tutelare anche in ossequio al segreto professionale, alla verificazione, appunto, dei fatti che gli si presentano in disamina. Il lavoro lo porta ad entrare in contatto con realtà e temi scottanti ed è sempre nella prospettiva del giusto e corretto espletamento delle sue funzioni che si pone la questione della legittimità o meno delle intercettazioni, che vedono il giornalista come diretto oggetto di indagini. Preliminarmente, è da osservarsi che qui si impone l’applicazione del bilanciamento tra la tutela dell’interesse pubblico, o della comunità, e quello del singolo intercettato.
Da tale angolo visuale, si comprende, il bilanciamento converge nello stesso punto, dal momento che l’aspirazione socio-giuridica alla giustizia, cui sottende l’interesse comunitario, e quella alla giustizia sociale, cui sottende il lavoro del giornalista, sono univoche.
Naturalmente, nel relativo onere ultimo, il giornalista si muove libero. E tale, senza condizionamenti esterni, deve sentirsi.
Volendo calare nell’esempio pratico detta fattispecie si è visto che il giornalista impegnato nell’immigrazione, e prima ancora nella diaspora, che poi si traduce in materia immigratoria, si è spesso portato in terra libica affrontando pericoli alla sua stessa incolumità, per raccontare le drammatiche condizioni esistenziali dei profughi, di cui ha raccolto le testimonianze per dare voce alla loro voce, fino a vedere quel mondo con i loro occhi, avvertendo, empaticamente ma lucidamente (ciò che solo il giornalista può fare), le paure che li attanagliano; ha vissuto la tragedia delle morti in mare, delle violenze patite dalle vittime, nella necessità dell’oblio e alla ricerca di nuovi valori e sistemi suscettibili di restituire dignità e decoro; ha sentito lo sperdimento della dispersione di interi nuclei familiari, delle sparizioni forzate di prigionieri politici; ha commosso il mondo, senza volerlo impietosire, suggerendo la pietas, e non la pietà, che spesso vira alla rassegnazione e all’intorpidimento.
I nostri giornalisti Désirée Klain e Stefano Carradino hanno raccontato l’odissea libica di Yaya Sangare, ivoriano di nascita, che passando per le prigioni del Maghreb, ha perso la famiglia in mare, all’infuori della sua piccola Debora, ne hanno raccontato il trauma, la prima esperienza europea, le vittorie sulla depressione, la presa di coscienza dei suoi diritti, sensibilizzando l’opinione della comunità e ingenerandogli la fiducia nelle Istituzioni con le quali lo stesso si rapportava, fino a poter con loro interloquire e guadagnarsi l’asilo.
Che dire di più? A parte l’auspicio che ai prossimi incontri con la diaspora i profughi non vengano ridotti alla stregua di meri testimoni, o di semplici fonti di vicende storiche, vale a dire di questa o quella migrazione, ma sia loro restituita la dignità dell’io narrante circa le storie importanti che direttamente li coinvolgono, ringrazio di cuore i giornalisti e la stampa per il lavoro ingrato e appassionato, per la tenacia e l’onestà del racconto. E questa volta aggiungo io qualcosa, per la Vs. cronaca: oggi, Yaya Sangare è un uomo felice, ha stabile residenza in Europa con la sua compagna, europea di nascita, insieme alla quale ha deciso di dare un fratellino a Debora, Eden che, figlio dell’integrazione che sta facendo del meticciato una interessante e vivace realtà multiculturale, forse senza di voi, e i vostri felici interventi sulla risvegliata coscienza di Yaya, non sarebbe neppure qui… motivo ulteriore per il quale Yaya Sangare ringrazia.
Buon lavoro a tutti; resto con Voi solidale.
*Presidente di Articolo21 Campania