Laura Silvia Battaglia torna a essere tutor del nostro premio. Giornalista professionista freelance e documentarista, Laura Silvia Battaglia lavora come reporter in aree di crisi dal 2007 ed è conduttrice e autrice RAI per Radio3Mondo. L’abbiamo intervistata per capire come torna a vivere questa esperienza e quali consigli si sente di dare ai finalisti e ai tutor che per la prima volta ricoprono questo ruolo.
Le abbiamo anche chiesto della recente e preoccupante vicenda delle intercettazioni di giornalisti e legali da parte della Procura di Trapani; vicenda che la vede coinvolta in qualità di persona citata in una conversazione tra due colleghi giornalisti.
- Cosa ti aspetti dal giovane under 30 che seguirai nella realizzazione dell’inchiesta?
Mi aspetto un entusiasmo travolgente, corroborato da estremo rigore di analisi e lucidità di giudizio.
- Quale consiglio su tutti ti senti di dare agli under30 che realizzeranno il progetto d’inchiesta insieme a te?
Non innamorarsi di un’idea. Essere pronti a modificare totalmente il punto di vista da cui si era partiti, a mano a mano che si acquisiscono nuovi elementi di indagine. Scoperta e viaggio alla ricerca di una verità possibile, immaginando tutte le verità possibili finché non se ne sia dimostrata almeno una: è questa è l’avventura che ci attende.
- C’è un’inchiesta che consideri un esempio da seguire? Quale e perché?
Sul piano dell’inchiesta classica, Spotlight del Boston Globe per me è un must. Ne faccio studiare ogni pagina e ogni documento ai miei studenti da anni perché questa inchiesta ha tutti gli elementi che servono per comprendere come si fa un lavoro del genere: ci vuole tempo, ci vuole una squadra nutrita, ci vogliono migliaia di fonti. E si parte da un piccolo episodio di cronaca per poi arrivare a toccare un problema globale e delicatissimo. In particolare la distribuzione e l’uso delle fonti nella redazione dell’inchiesta, è un tema fondamentale: puoi avere scoperto mille cose e avere centinaia di documenti ma se non sai metterli debitamente in relazione e non sai trovare un linguaggio per rendere tutto questo materiale commestibile e comprensibile, non hai raggiunto il tuo obiettivo. Sul piano dell’inchiesta con strumenti open source, suggerisco di scoprire il metodo Bellingcat, collettivo internazionale al quale collaboro da qualche anno sul tema della tracciabilità delle armi nel mercato globale. E’ importante sapere che per fare una buona inchiesta non esiste solo il metodo classico che pretende di avere una gola profonda, un testimone eccezionale, ma bisogna sapere che le tracce di ciò che andiamo cercando sono anche disseminate digitalmente, solo che non sappiamo vederle, individuarle e non sappiamo utilizzare degli strumenti molto utili alla loro individuazione. Anche qui, il più delle volte il lavoro consiste nel sapere come interpretare questi elementi e come metterli in relazione in una narrazione coesa e non demolibile.
- Che libro consiglieresti di leggere a chi vuole fare del giornalismo il proprio mestiere?
Di questi tempi sempre più fideistici, suggerirei di rispolverare l’opera del filosofo scettico Sesto Empirico, vissuto nel II secolo dopo Cristo, che ha il pregio di ricordare a noi giornalisti che si vive di domande, che la soggettività è inevitabile e che la sospensione del giudizio è una pratica necessaria di fronte a molteplici fenomeni. Da integrare con “Congo” di David van Der Reybrouck, per me il più grande reportage mai scritto. Perché va bene farsi domande, ma solo dopo avere visto, sentito, odorato, respirato a pieni polmoni la realtà.
- Torni a ricoprire il ruolo di tutor del Premio Morrione per la seconda volta. Alla luce della tua prima esperienza, qual è il segreto per lavorare bene in team?
Non mettersi sul piedistallo ma mettersi a disposizione. I nostri inchiestisti non sono “ragazzi” ma colleghi a tutto tondo, solo con meno anni di esperienza, e si aspettano che tu offra loro tutto quello che hai da offrire. Dunque, è vietato negarsi ed è obbligatorio appassionarsi alla loro passione, con un minimo di distacco e di lucidità.
- Passando ai fatti di recentissima attualità, nel dare la notizia a chi ti segue su facebook che anche tu sei finita nelle intercettazioni della Procura di Trapani hai usato la parola “inacettabile”. Perché?
Mi trovo in queste intercettazioni come persona citata durante una conversazione privata tra due giornalisti, di cui uno dei due, la collega Nancy Porsia, è stata intercettata per ben sei mesi nel 2017 e i suoi movimenti monitorati con GPS senza essere indagata nell’ambito dell’inchiesta della procura di Trapani sui salvataggi in mare da parte delle navi delle ONG Jugend Rettet, Save the Children e Msf. Nella conversazione vengono riassunti elementi della mia vita lavorativa e soprattutto privata, collegati alla mia esperienza in Yemen, e vengono indicati come “molto importanti”, pur non avendo io nulla a che vedere con la questione in oggetto (sbarchi dalla Libia) di cui non mi occupo dal 2011, ossia da quando lavorai in Libia per un mese durante la guerra civile in corso. Ad una lettura dell’informativa depositata, questa tipologia di “interesse” non è stata applicata solo a me ma anche ad altri colleghi. Dopo la pubblicazione di questi atti, ci facciamo molte domande e per questo definiamo quanto accaduto “inaccettabile”. In sintesi, comprendiamo le necessità degli inquirenti di intercettare gli indagati (personale delle ong in oggetto di indagine) e di ritenere di interesse le conversazioni che gli indagati hanno con alcuni giornalisti ma quale necessità c’è di intercettare per sei mesi una collega (Nancy Porsia) non indagata, e di seguirne anche gli spostamenti, nonché di annotare meticolosamente ogni sua conversazione con terzi e di conservare con la stessa meticolosità tutti gli elementi di conversazione non utili all’indagine, soprattutto di tutti i giornalisti e di tutte le fonti con cui entra in contatto? E ancora: per quale motivo tutti questi elementi non utili all’indagine in oggetto non sono stati espunti e sono stati mantenuti nell’informativa depositata? I nomi di fonti, contatti, rapporti personali dei giornalisti e in particolare di Porsia vengono esposti agli atti. Questi dati dovrebbero essere tutelati dal codice di procedura penale come segreto professionale. Ergo, cui prodest? E, soprattutto, tutto questo è compatibile con l’articolo 21 della Costituzione? E non fa precipitare pericolosamente l’Italia verso il basso nell’indice della libertà di stampa? Questo peraltro non è un caso solo italiano, nella misura in cui, in questo dossier, si pone attenzione e interesse anche su reporter internazionali, con cui Nancy Porsia lavorava a quel tempo e che vengono profilati su tutte le piattaforme social dagli inquirenti con la stessa meticolosità riservata agli italiani. Con tutta onestà, ho visto queste cose solo nelle informative dei servizi segreti dei Paesi non democratici dove ho messo piede negli ultimi 15 anni, in azioni di controllo e monitoraggio dei giornalisti, quando ricerchino informazioni sul campo e indaghino con indipendenza e vengano percepiti dalle autorità dei Paesi suddetti come testimoni scomodi. Considero questa vicenda molto grave e degna della massima attenzione e allarme da parte della nostra categoria professionale, non solo a livello italiano.