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Come il cinema italiano ha attraversato la censura negli anni

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Addio alla censura cinematografica. Lo ha deciso il ministro alla cultura Franceschini: a tutelare la morale e i minori sarà una commissione di 49 esperti. In attesa che le sale possano riaprire e che il pubblico torni ad affollarle. Una data storica per il cinema. Ma come ci si è arrivati?

In principio c’era la censura fascista. Quando il cinema cominciò a diffondersi anche in Italia il regime che già controllava la radio e i giornali cominciò a tener d’occhio anche i film, non tanto per evitare che fossero scollacciati quanto per controllare che fossero rispettosi del verbo littorio. Erano gli anni in cui furoreggiava Luciano Serra pilota che il regista di regime Alessandro Blasetti aveva dedicato ad un eroe della neonata aviazione, mentre gli sdolcinati film dei cosiddetti “telefoni bianchi” non davano eccessive preoccupazioni a Palazzo Venezia.

Il problema del controllo sul cinema si complicò con l’avvento della Democrazia Cristiana, più moraleggiante e per questo ugualmente occhiuta. Quando il cinema italiano si inventò il neorealismo, e Rossellini girò Roma città aperta, e poi vennero Paisà e Ladri di biciclette, l’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio con delega di fatto alla cinematografia, Giulio Andreotti, fu lapidario: “Questi film danneggiano l’Italia: i panni sporchi si lavano in famiglia”.

Nacque allora la censura cinematografica che ipocritamente si chiamò “commissione di revisione”: un gruppo di “esperti” di cinema che avevano il compito di vedere tutti i film appena prodotti e prima che fosse destinati alla distribuzione, per adocchiare e bocciare tutte quelle scene che si potessero definire contrarie alla morale o offensive del comune sentimento del pudore, come recitava il codice penale. Dietro intimazione della commissione di revisione quelle scene andavano tagliate e solo allora il film poteva arrivare sugli schermi. Se non fosse stato addirittura sequestrato.

Ad abundatiam era nato anche il famigerato CCC (Centro Cattolico Cinematografico) che sosteneva la mano pesante della censura con esplicite influenze clericali. In quegli anni i film non potevano arrivare sugli schermi senza il prezioso visto di censura che li aveva divisi in due categorie: film per tutti e film vietati ai minori di 18 anni. Più tardi si arrivò a una terza classificazione: film vietati ai minori di 14 anni.

Può sembrare incomprensibile tanto accanimento contro le scene di sesso e di violenza in un film, oggi che basta navigare su internet per trovare sesso e violenza aa gogò. Eppure, allora la censura cinematografica era spietata: se un film arrivava sugli schermi con qualche scena di nudo pur permessa dalla commissione di censura interveniva la magistratura. Inflessibile era il pretore Salmeri, paladino di tutte le crociate contro questa specie di reato: teneva sotto sequestro il film fino a quando non fossero state eliminate le scene “incriminate”. Decine le vittime di questo Torquemada delle forbici: perfino le belle attrici interpreti di un innocuo seppur pruriginoso film a episodi come Le bambole, ne fecero le spese: Virna Lisi, Monica Vitti, Gina Lollobrigida. Ma anche film d’autore subirono mostruosi tagli censòri: come Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, addirittura condannato al rogo della pellicola con una condanna penale per il regista, Rocco e i suoi fratelli di Visconti per una scena di stupro notturno di Annie Girardot, Salò o le 20 giornate di Sodoma, di Pasolini bocciato in toto e quindi uscito sugli schermi se non dopo molti anni, Totò e Carolina di Monicelli, accusato di vilipendio alle forze dell’ordine. E centinaia di altri casi paradossali.

Anche perché ad accogliere i film cosiddetti “per tutti” c’erano le sale parrocchiali, un circuito di cinematografi sostenuto dal cattolicissimo Ente dello Spettacolo, che oggi non esistono più come tali, ma sono oneste sale di seconda o terza visione, come si diceva fino a poche decine di anni fa.

Come reagivano i produttori alle offensive della censura? Chiedendone l’abolizione o in alternativa il richiamo al codice penale: “Se noi mettiamo scene inaccettabili – dicevano – sia il giudice a decidere, non un censore privato che può essere anche influenzato da interessi di parte o ideologici”. In assenza di precise norme di legge la formula funzionò per un po’ ma poi i produttori calcarono la mano: sapendo che certe scene di nudo o di violenza sarebbero state comunque tagliate dal tribunale rincararono la dose, contando sul fatto che più di tanto il giudice non poteva ordinare di tagliare, e quindi qualcosa di lubrico sarebbe rimasto, per la gioia del pubblico più di bocca buona.

Oggi giustamente si inneggia all’abolizione della censura, secondo quanto annunciato dal ministro della cultura Franceschini: un suo decreto completa l’attuazione della legge del 2016 che porta il suo nome e che per quasi cinque anni è rimasta incompleta, e che impegnava il governo “ad adottare uno o più impegni legislativi per riformare le procedure attualmente previste dall’ordinamento in materia di tutela dei minori nella visione di opere cinematografiche e audiovisive, con l’istituzione di quattro categorie ciascuna proporzionata  alle esigenze della  protezione dell’infanzia e della tutela dei minori”.

Da oggi, dunque, i film saranno così classificati: per tutti, non adatti a minori di sei anni, vietati ai minori di 14 anni e vietati ai minori di 18 anni.

A giudicare sarà una commissione presieduta dal presidente emerito  del Consiglio di Stato Alessandro Pajno e composta da 49 membri scelti fra sette professori universitari in materie giuridiche, sette fra avvocati e magistrati assegnati ai tribunali dei minori, sette docenti di psicologia, psichiatria o pedagogia, sette esperti con particolari competenze sugli aspetti pedagogico-educativo, sette sociologi competenti in comunicazione sociale e comportamenti  dell’infanzia e dell’adolescenza, sette rappresentanti delle principali associazioni dei genitori, e sette fra membri designati dalle associazioni per la protezione degli animali ed esperti  nel settore cinematografico. Tutti costoro avranno venti giorni di tempo per decidere che il giudizio sui limiti di età proposto dai produttori sui propri film sia congruo e quindi si possa dare l’autorizzazione alla distribuzione della pellicola, o al contrario se i produttori sono stati manica larga in fatto di moralità per garantirsi più pubblico. Comunque il giudizio dei “49” sarà consultivo, non potrà operare alcuna forma di censura. E se un film viola la legge, sarà sempre il codice penale a stabilirlo.

A proposito dei quattro “esperti nel settore cinematografico” previsti dalla nuova “commissione dei 49”, va ricordato che anche della famigerata commissione di revisione (leggi censura) prevista dalla vecchia legge facevano parte i cosiddetti “cinematografari” cioè i produttori proposti dall’Anica, i distributori segnalati dall’Agis e gli esercenti delle sale scelti dall’Anec. Mancavano invece i giornalisti cinematografici, perché l’SNGCI, il sindacato nazionale che come gruppo di specializzazione della Federazione nazionale della stampa li riunisce, si è sempre rifiutato di offrire propri rappresentanti per manifestare apertamente il suo dissenso all’istituzione di una qualsiasi forma di censura cinematografica, e di conseguenza quelli che in tale veste vi facevano parte non erano veri giornalisti cinematografici.


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