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Bruno Segre: 25 aprile e 1° maggio, oltre le due date

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Bruno Segre avvocato, giornalista e partigiano, con i suoi centotre anni racconta due date simbolo

Nato nel 1918 a Torino, Bruno Segre «è una figura tra le più limpide e coraggiose dell’antifascismo italiano. Combattente partigiano nelle valli del Cuneese – dopo aver rischiato la fucilazione nel carcere di via Asti e la deportazione per mano dei repubblichini – nel dopoguerra ha condotto battaglie civili per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza (nel 1949 difese il primo obiettore in Italia) e a favore del divorzio» (così il libro di Nico Ivaldi a lui dedicato, Non mi sono mai arreso: Bruno Segre, una vita da resistente, ed. Il Punto, 2018). Come egli stesso ricorda, «è “scampato” alla morte per ben cinque volte». Un portasigarette di metallo protesse il suo cuore da un proiettile in tempo di guerra. Oggi il partigiano, avvocato e giornalista Segre, racconta due date simbolo: il 25 aprile e il Primo maggio.

Il 25 aprile e il 1° maggio sono due date importanti quasi «gemelle» oltre a essere vicine?
«Tra le due date vi è un’evidente continuità storica. La prima rappresenta la Liberazione dal territorio nazionale dalla barbarie nazi-fascista. Il 1° maggio, invece, l’emancipazione dei lavoratori nel mondo. Dunque, la prima è una data tipicamente italiana, mentre l’altra è internazionale. Tant’è vero che quando il fascismo prese il potere decise immediatamente di sostituire il Primo maggio con il 21 aprile, “fondazione” di Roma [753 a.C, ndr]. Nella Germania nazista la festa del 1° maggio non fu mai sostituita, perché il nazismo nacque come Nazionalsocialismo, ossia come ramo del Partito tedesco dei lavoratori».

Ma oggi qual è lo stato di salute del lavoro?
«Oggi la situazione del lavoro si è trasformata, e molto. La nostra civiltà è duramente colpita da questa maledetta pandemia che sta cambiando repentinamente tante dinamiche del lavoro. Oggi, dopo la tragedia delle morti, il lavoro è il più colpito dal virus. Ossia a essere duramente colpite sono le persone che perdono questo diritto sancito nel primo articolo della nostra Costituzione Repubblicana».

È solo per colpa della pandemia?
«No, certamente. Essa tuttavia sta modificando i costumi degli italiani, trasfigurando anche le abitudini precedenti. Una situazione che infatti sta innescando disordini – cavalcati talvolta dalle destre –, ma anche rivolte civili e inquietudini tra i giovani costretti alle chiusure forzate, a “clausure” e limitazioni negli spostamenti, a distanziamenti da spazi d’azione e di confronto come le scuole; tutte limitazioni che di fatto limitano le libertà. Limitazioni che però per chi come me “ha una certa età”, sono doverose: prima di ogni libertà vi è la tutela della salute, la salvaguardia di ogni singola vita. Limitazioni alla libera circolazione e al lavoro che sono certamente dolorose, scottanti, tristi, talvolta devastanti, ma necessarie per la salute collettiva».

In questo tempo di pandemia e mentre ricordiamo il 25 aprile, assistiamo a nuovi episodi antisemiti, xenofobi, che sfruttano proprio le chiusure e le distanze fisiche per diffondersi e “infettare” più persone grazie al web…
«Il 25 aprile è una data storica di Liberazione per tutti. Ma lo è in particolar modo per gli ebrei perché quell’anno vedevano finalmente finire le terribili persecuzioni ripristinate dai fascisti, tornando a prima del marzo 1848. Solo nel 1848, si posero infatti solide basi per una nuova civiltà. A Torino re Carlo Alberto concesse il suo Statuto alla vigilia della partenza per la I Guerra d’indipendenza. Emise quell’anno due editti: uno per i valdesi e un altro, qualche settimana dopo, per gli ebrei. In quella primavera del 1848 sia i protestanti (il 17 febbraio) sia gli ebrei (il 29 marzo) ottennero la piena libertà e i diritti civili. Con quell’editto si sancì la chiusura dei ghetti e si aprirono le porte a un periodo di fruttuosa emancipazione per le due minoranze religiose. Un ebreo, Isacco Artom, a esempio, divenne il segretario particolare di Camillo Benso di Cavour; poi altri ricoprirono ruoli importanti come Alessandro Fortis e Luigi Luttazzi di presidenti del Consiglio o di sindaci, come Ernesto Nathan (a Roma, 1907-13. Le minoranze debbono essere tutelate, sempre, mentre da noi, ancora oggi, sono le maggioranze a godere di molti privilegi. Una effettiva parità religiosa purtroppo e ancora, non esiste nel nostro Paese».

Però, dopo lo Statuto Albertino tornarono altri tempi bui…
«L’arco storico del 25 aprile ricorda anche la Marcia su Roma. Il re, traditore e spergiuro tradì il giuramento fatto nel 1900 firmando, a esempio, le leggi razziali e quelle per le aggressioni all’Etiopia, all’Albania, alla Spagna. Aggressioni fasciste avallate dal quel re, “piccolo” quanto ambizioso. Ricordo che allora sui muri delle città si scriveva con il gesso “viva il re”, io passavo ad aggiungere una “o” per far diventare il re un “reo”. Una piccola sfida».

La sua esperienza di consigliere comunale e presidente di tanti enti e associazioni è stata utile anche per svolgere il ruolo di direttore di una rivista mensile importante…
«Il mensile L’Incontro (periodico indipendente) che ho fondato nel 1949, e diretto per settant’anni, oggi è un quotidiano online che ospita ancora i miei contributi. Nell’ultimo editoriale infatti ricordo che “la Resistenza è stata la più grande guerra popolare italiana, perché formata da volontari e sostenuta dal consenso della gente”. E che “Antifascismo significa garanzia di libertà, giustizia sociale, tolleranza verso il diverso, difesa contro ogni totalitarismo”. La libertà inizia con la libertà di espressione, di comunicazione, di informazione, di pensiero. La libertà è il bene supremo dell’uomo e per questo dev’essere un bene collettivo. Tranne, per coloro che vogliono abolire la libertà. Dunque è importante contrastare tutti gli analfabeti delle democrazia, i nostalgici della dittatura, di ogni dittatura, comprese quelle religiose e dogmatiche».

Lei ha citato i nostalgici da contrastare, chi sono?
«Sono piccole minoranze che ben conosciamo, come Casa Pound e Forza Nuova, poi altri nostalgici che evidentemente dalla storia non hanno imparato nulla. D’altra parte neanche Hitler aveva imparato da Napoleone che l’invasione delle Russia sarebbe stata “un fiasco”. La storia è una maestra di vita che purtroppo in pochi sanno seguire».

Come vede l’Italia di oggi?
«Il nostro paese dovrebbe unirsi perché ci sono troppe “Italie”: una vera unità d’Italia ancora non esiste, stante la grande differenza visibile tra il Nord e il Sud. Oggi, invece, avremmo bisogno di fare un’Italia consapevolmente unita, responsabilmente unitaria. E dopo averla fatta, questa, dovrebbe espandersi attraverso lo sviluppo della cultura, attraverso l’approfondimento delle sue ragioni storiche nella dignità delle sue radici. Questa è l’Italia che sogno, un’Italia emancipata e emancipatrice».

Nella foto di Pietro Romeo: Torino, 29 marzo 2018: Bruno Segre interviene alla commemorazione di Goffredo Varaglia, davanti alla targa dedicata al martire. al suo fianco la presidente del Concistoro della Chiesa valdese di Torino Patrizia Mathieu

Fonte: Riforma.it


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