Non servono molte parole a Donatella Di Pietrantonio, che sa condensare in centosessanta pagine, con rapide contrazioni spazio temporali, i passaggi di una trama narrativa impreziosita dal lessico efficace e dagli echi di alcune parole chiave. Il romanzo è un viaggio che porta la protagonista da Grenoble a Pescara e contemporaneamente un viaggio della memoria. Una memoria che a momenti diventa “un’ebollizione sfuggita al controllo”, ma in altri “restituisce ricordi alla rinfusa” o addirittura “sceglie le sue carte dal mazzo, le scambia, a volte bara” e così l’autrice ci tiene in pugno fino alla fine sull’evento tragico che l’ha richiamata in patria e sull’impatto che esso avrà sulla sua vita che è andata via via raccontando. Ma “Il ricordo è anche una forma di recriminazione” e la protagonista ha dei conti in sospeso: con la sua famiglia, con la madre, con Piero, l’ex- marito e anche con la sorella Adriana.
Piero è stato il primo grande amore. Il libro si apre con la sua festa di laurea che diventerà a sorpresa festa di fidanzamento; ma prima si scatena una grandinata improvvisa e un imprevisto incidente lascia una traccia di sangue, che non si toglie nemmeno lavandolo, sul vestito bianco di lei: un primo segno. Poi ci sarà il secondo segno, lo sguardo stupito di Piero al primo dono di lei: la raccolta di Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Lo smarrimento negli occhi di Piero sembra confermare quell’improbabilità dell’amore su cui lei aveva riflettuto leggendo e che poi aveva creduto smentita proprio dall’imprevisto incontro con il ragazzo. La realtà sembrava cancellare i segni e anche la velata, minacciosa previsione della madre: “E’ un bel giovane, ma si vede che non è della razza nostra. Mi pare un po’ troppo per te”. I genitori di lui invece l’avevano accolta a braccia aperte, erano stati generosi, avevano rapidamente comprato il bell’appartamento con vista sul mare e organizzato il matrimonio. Piero era il marito più gentile e premuroso che si potesse aspettare, ma nel tempo, con la sua cecità, lei aveva contrabbandato per amore una “falsa normalità”, anche se le loro vite tranquille erano “due solitudini affiancate” che li “ scaldavano fino alle ossa”. Si arriverà a una resa dei conti dolorosa, che rivelerà tutta l’inconciliabilità della loro relazione. Continueranno a volersi bene, in una diversa “ immateriale fedeltà”. Ma lei resterà realmente fedele all’ uomo che non poteva amarla e il suo segreto sarà la sua devozione.
Dopo la dolorosa separazione dal marito la protagonista continua la carriera universitaria. La sua storia di donna emancipata e la sua fede laica nella Letteratura mi sembra si possano condensare in due citazioni: di Jo Mach della saga delle Piccole donne, che rilegge quando nella casa di famiglia assiste la madre morente e Cime tempestose, che, da ragazza, leggeva avidamente la sera invece di dire le preghiere, preghiere che ormai non sa pronunciare, nemmeno quando la sorella sta in pericolo. Tra l’altro Cime tempestose è anche la storia di un amore irrinunciabile e anche questo ha a che fare con lei. La sua famiglia d’origine è una famiglia contadina, patriarcale, segnata dalla povertà e dalla morte tragica di un figlio quindicenne, dall’autoritarismo del padre, dall’irrilevanza del ruolo in cui è relegata la madre e dalla dispersione degli altri figli, di cui uno disabile ricoverato in un istituto. Ma se il rapporto col padre non è facile è la madre quella con cui ha sperato di far tornare i conti, almeno quando le è stata vicina in modo esclusivo e con grande dedizione durante la malattia. “Era lei mia madre. Mi aveva data da crescere a un’altra donna, eppure ero rimasta sua figlia. Lo sarò per sempre”. Come aveva potuta darla da crescere a un’altra donna a sei mesi e come l’aveva amata da quando era tornata a casa, tredicenne? Aveva cercato di essere la figlia perfetta per essere amata, ma poi aveva capito che le inaspettate premure di sua madre, quando avvenivano, non dipendevano dal suo comportamento. I genitori si fidavano di lei, le avevano consentito di studiare, ma la madre sembrava tutta ripiegata nel dolore della perdita del figlio Vincenzo.
“Una specie di anestesia l’ha protetta da noi, i sopravvissuti. Si è lasciata sfuggire Adriana così, come si può perdere una moneta e le chiavi di casa. Come aveva perso me a sei mesi. Ha riservato le sue cure all’unico che non ne aveva bisogno”. Il giudizio sulla madre è implacabile come sanno essere implacabili i figli. Spera che in punto di morte la madre le faccia una rivelazione finale, che fughi il dubbio che sia lei stessa a chiamare gli abbandoni, che le dica che le ha voluto bene: ma non succederà. La madre verso la fine vorrà solo lei vicina e forse sarà questo il suo modo di dirglielo, ma le rimane il dubbio profondo di essere stata indegna del suo amore e in superficie una rabbia indomabile che non le consente il perdono. Rimanderà alla sua ultima ora i conti con la madre. La madre se ne andrà come una dea inavvicinabile e incomprensibile, tra i lampi, i tuoni e la grandine del suo funerale. Una di quelle grandi Mater matutae, irraggiungibile mistero della maternità. All’ultimo momento arriverà al funerale anche Adriana e per la protagonista quello sarà anche “il nostro addio silenzioso alle ragazze che eravamo state”. Dopo la morte della madre non ci si può più sentire figli e nessuno come una sorella o forse un fratello, può condividere con noi i ricordi. Marina Giovannelli in un suo libro sulla sorellanza analizza coppie famose di sorelle e mette in evidenza che quelle relazioni tra sorelle sono state tanto più stabili quanto più i ruoli sono stati differenti e definiti. Ma è forse quando i ruoli non sono così ben definiti che a volte c’è un profondo, anche se taciuto, bisogno d’amore che spinge a ricercare nella propria storia familiare “ per collocare momenti della vita nel loro ‘giusto’ posto, dar loro il valore che hanno (o che non hanno), cercare le ragioni dei comportamenti, in altre parole rendere l’origine meno oscura.” Forse tra la protagonista e Adriana convivono entrambe queste posizioni. Certamente sono molto diverse tra loro e assumono ruoli differenti nella coppia, ma nella complicata situazione della loro famiglia quando la protagonista tredicenne ritorna a casa, Adriana e questa sconosciuta, questa “Arminuta” dormono insieme, condividono il segreto dell’enuresi notturna di Adriana, stabiliscono una complicità e un legame indelebili.
Ciò che condividono certamente è un senso di abbandono da parte dei genitori “Con Adriana … eravamo alla pari, abbandonate a noi stesse, sole al mondo, sorelle. Litigavamo per la radio accesa mentre studiavo, la finestra che lei voleva aperta e io chiusa, i suoi orari di rientro. Per ognuna di noi restava la certezza dell’altra al fondo del dolore che non ci siamo mai confessate”.
La protagonista affidabile, precisa, studiosa; la sorella capace, estrosa, irrequieta, imprevedibile. Adriana avvererà la profezia del padre non riuscendo a portare a termine gli studi e a quindici anni sarà richiamata a casa a fare la contadina e poi tutti i lavori umili che dovrà sobbarcarsi nella vita fino al traguardo del furgoncino sul quale vende il pesce fritto appena pescato, con nel cuore il sogno di aprire un ristorante. Le due sorelle richiamano sotto alcuni aspetti la coppia de “L’amica geniale” Lenù – Lila, quando la protagonista, ormai docente universitaria, tornando a Pescara e osservando un “rettangolo di città così americana” pensa: “Palestra di architetti e artisti, Pescara. L’abbiamo amata, io e mia sorella, ognuna a modo proprio. Ci ha accolte. Se non avesse sprecato il suo talento per il disegno, l’avrebbe potuta progettare lei la stazione ferroviaria a specchio, il Ponte del Mare, la fontana a forma di calice per piazza Salotto”. Adriana, “opportunista istintiva, non per calcolo”, ma anche generosa e capace di affetto ricorrerà a lei ogni volta che avrà voglia o bisogno, come quando dovrà fuggire da una situazione pericolosa con il piccolo figlio Vincenzo. Le sorelle condividono anche l’esperienza dolorosa dell’ amore infelice, entrambe incapaci di un abbandono definitivo, legate da una fedeltà che rende impossibile un qualsiasi altro nuovo rapporto profondo, anche quando si allontanano. La relazione d’amore di Adriana è una relazione violenta, pericolosa e rischierà di esserle fatale. Anche in quel momento la protagonista le sarà vicina e forse alla fine troverà le parole per una preghiera, una di quelle preghiere che si possono innalzare quando la vita ci ha già fatto conoscere molto dolore e potrà anche chiedere che finisca quella maledizione che la madre aveva gettato addosso a Adriana nel furioso litigio di tanti anni prima.
Nello sfondo del romanzo un Abruzzo discreto, accennato, come un aroma leggero ma persistente nella descrizione di Pescara, del porto, delle spiagge, dei cieli, della campagna, della rivisitazione di Scanno attraverso la suggestione dei clic di Cartier – Bresson, Berengo Gardin e dell’ antesignana Hilde Lotz – Bauer. C’è poi Borgo Sud, luogo della vicenda di Adriana, luogo di una solidarietà umana ormai perduta.
In “Borgo Sud” si trovano gli stessi personaggi di “L’Arminuta”, tuttavia si può leggere come un libro autonomo. In un’intervista l’autrice ha dichiarato che già nel romanzo precedente avrebbe voluto seguire i personaggi fino alla mezza età, poi il libro aveva trovato prima la sua compiutezza. In seguito però l’Arminuta e Adriana la richiamavano a indagare come si vada incontro alle relazioni adulte quando si è vissuto il disamore materno, l’abbandono, la mancanza, sentimenti che nel secondo romanzo l’autrice indaga con finezza ed equilibrio.
Per ora “Borgo Sud” è nella dozzina del premio Strega, vedremo il 10 giugno se entrerà nella cinquina.
Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud, Einaudi 2020.
Elena Ferrante, L’amica geniale,ed. e/o
M.Giovannelli, Variazioni sulle sorelle, Iacobelli, 2017