Via, ovunque si respirino libertà e scienza, a Copenaghen, a Mosca, e soprattutto nell’amata Parigi dei salotti trasgressivi. Anne Lister vola come Icaro nei cieli d’Europa, ma periodicamente, a causa di ricorrenti rovesci sentimentali, ricade nel piccolo mondo di Halifax, Yorkshire, e più esattamente nella tenuta di famiglia di Shibden Hall. Arriva come una folata di buran, mentre le prospettive si ribaltano e gli eventi subiscono un’accelerazione legata al dinamismo della protagonista – viaggiatrice, imprenditrice, proprietaria terriera. L’obiettivo si affanna dietro le falcate decise di Anne, ne asseconda il punto di vista e il colore psicologico, non dimenticando di esplorare i salotti rivestiti di legno di quercia dove fiorisce la maldicenza, le cucine alla Hogarth, i personaggi dickensiani, le acconciature boccolose, gli elaborati vestimenti e i cappelli infiorati di nastri – leggiadre camicie di Nesso studiate per comprimere entro schemi di inutilità sociale il corpo femminile, riducendolo a pura decorazione, a ninnolo rococò.
Schemi che Anne Lister scompagina. Indossando abiti neri di maschile praticità e l’inseparabile tuba, si presenta come una precorritrice dei sovvertimenti gender novecenteschi. Profondamente consapevole del proprio valore e dell’irrilevanza delle donne nell’Ottocento ipermaschilista britannico, utilizza in ogni circostanza l’arma di una dialettica così franca e insolita da risultare spiazzante. Riscuote personalmente il canone dai fittavoli, si prende cura di loro purché siano laboriosi e onesti, progetta delle innovazioni per la dimora e il parco di Shibden Hall, inizia una ‘guerra del carbone’ con la potente famiglia dei Rawson, incarnando così il passaggio avvenuto in Inghilterra nel XIX sec. dal latifondismo a un’economia di tipo industriale, con tutti i pregi e i difetti che conosciamo.
È tuttavia quando il ritmo rallenta che la figura di Anne acquista una molteplicità di sfaccettature capace di sorprendere. Il nero degli abiti rappresenta il lutto per gli amori finiti, per le donne che non hanno trovato il coraggio di legarsi a lei per sempre, preferendo la normalità di un matrimonio privo di passione. Questa controllata malinconia, sempre venata di umorismo, emerge nei momenti in cui si isola nel suo studio e ripercorre le memorie affidate al diario – documento prezioso arrivato fino a noi – mentre una luce liquida, che sembra essa stessa provenire dal passato, le si posa sul viso. Ma i rimpianti vanno lasciati alle spalle, il nostro soggiorno sulla Terra è troppo breve per non continuare a inseguire una felicità forse non così impossibile da raggiungere. Può essere anzi più vicina del previsto, fra le rose inglesi che si arrampicano sinuose sulla carta da parati ocra del salotto da ricevimento della giovane e diafana ereditiera Ann Walker, intimidita e depredata da un nugolo di parenti molesti.
La ragazza confida ad Anne le sue inquietudini riguardo alla fragilità vertebrale e ai disturbi nervosi che la affliggono, e all’intima convinzione di non avere il diritto di opporsi alle richieste dei familiari: zie, cugini e altri parassiti privi di scrupoli nel far leva sul senso di inferiorità di Ann. È a questo punto che la sceneggiatura di Sally Wainwright e l’interpretazione di Suranne Jones confluiscono in un ricamo finissimo di stati d’animo. Anne Lister non si limita a dettare alla giovane Walker lettere risolute indirizzate ai parenti, fa molto di più: attraverso il desiderio e la delicatezza minuziosa dello sguardo – uno sguardo che avvolge e lascia spazio nello stesso tempo, che fa sentire l’altra amata e importante – infonde per la prima volta sicurezza e coscienza di sé nell’animo di Ann.