E’ molto raro che capiti di leggere oggi un romanzo epico. Ci stiamo abituando, sempre più, a semplificazioni e psicologismi che si concentrano sull’io del personaggio e a una scrittura sempre più sciatta.
Abbiamo avuto la fortuna di imbatterci, per caso, in un romanzo sorprendentemente epico e morale, di quelli che leggi tutto d’un fiato e che ti lasciano dentro, e a lungo, riflessioni e considerazioni.
Si tratta di Essere rosso, dell’autore cileno, Javier Argüello, nato nel 1972, che si proclama “Rosso, e non per ideologia”.
E’ la storia di una famiglia argentina, costretta a fuggire da due dittature in Sudamerica, nata da genitori militanti, Omar e Lolita, che si sono conosciuti a un festival della gioventù comunista a Vienna, si sono riconosciuti negli stessi ideali e si sono innamorati. Da loro è nato il protagonista del romanzo che coincide con lo scrittore, in un racconto autobiografico paradigmatico della storia del Novecento e dell’ideale del partito comunista, crollato insieme al muro di Berlino, insieme al trionfo del capitalismo in Russia, ma non del tutto fallito. Perché nel libro troviamo la dimostrazione esatta e inconfutabile di come possano fallire gli esseri umani, ma non le idee, quando sono giuste e ispirate a un principio di giustizia ed equità.
“C’è stato un tempo in cui la gente era più propensa a pensare in termini di fare la cosa giusta”.
Con queste parole il giovane ragazzo riceve una spiegazione dal padre sull’essere comunista, sull’idea nata con il sogno comunista del quale, nelle prime pagine del romanzo, raccontando le vicende familiari di entrambi i genitori, le loro origini, le difficili scelte compiute in una realtà di miseria ed emigrazione, viene espletata la storia da Marx in poi. Senza trasformare mai la narrazione in saggio, Argüello, raccontando di quanto approdò in Russia, nel 1997 e di come la trovò trasformata rispetto a come l’aveva immaginata, affronta un excursus sulla trasformazione di un immenso paese che “meno di un secolo prima era un paese feudale, meno di sei anni prima era ancora l’unione Sovietica. “
“Il sogno comunista accese le speranze del mondo intero (…) e diffondendosi nel mondo attraversò l’Oceano e arrivò in America, e dal Messico zapatista scese lungo la Cordigliera delle Ande per incontrare il sangue dei Tupac Amaru e del Cile (…) e della Pampa. Una Pampa abitata da gente venuta in Argentina da ogni angolo della terra per fuggire dalla fame e dalla guerra e da diversi tipi di persecuzioni”
Il ragazzo che impara questa lezione dal padre cresce e fa le sue esperienze; conosce la dittatura di Pinochet in Cile, scappa in Argentina e si trova, qui, di nuovo, sotto una dittatura che vuole distruggere il comunismo eliminando i comunisti e tutti coloro che potevano essere anche solo lontanamente accusati di un pensiero diverso. Alla fine viaggia in Europa e assiste al fallimento di ogni tentativo di applicare quelle idee, alla degenerazione di quelle idee di libertà in dittatura.
La considerazione su questo fallimento è lucida e realista; non c’è nessun fondamentalismo cieco nello scrittore, anzi. Egli riesce a mettere a confronto i vari totalitarismi che si sono realizzati nel mondo, sia di sinistra che di destra, e non fa sconti a nessuno. “Il nemico si nasconde a destra e a sinistra”. L’unica differenza è che il comunismo parte da un’ideologia “giusta”, che vuole giustizia e uguaglianza, il fascismo qualsivoglia storicamente, no. Il punto di vista è certamente quello di un uomo comunista, di una famiglia comunista, ma con lo spirito critico giusto e imparziale, capace di realismo e disincanto.
Le esperienze socialiste e comuniste del XX secolo non incarnano il fallimento delle idee che propugnavano, ma degli esseri umani che, bianchi o neri, cristiani o musulmani, operai o imprenditori, uomini o donne, sono inclini al male. Gli uomini hanno distorto l’idea, che era giusta. Il fallimento è dell’essere umano, non dell’idea.
Le pagine centrali sono dedicate al colpo di stato del 1973 in Cile. Il crescendo di eventi che hanno portato dall’elezione di Allende, all’arresto e poi al suicidio, alla persecuzione di tutti i sospettati, agli arresti di massa, al clima di delazione, alla paura, tutto ciò che è stato raccontato da tanti autori sudamericani – per prima ci è venuta in mente Isabelle Allende, ma anche tanti film sul tema – ha rappresentato il nucleo centrale della vita di Javier Argüello. Il racconto è dettagliato ma non c’è nessuna voglia di indugiare su particolari tragici o cruenti. Il senso del dramma vissuto dal Cile ce lo danno pochi particolari, come poche frasi: “i morti scendevano lungo il fiume Mapocho…”
Di quei fatti terribili l’autore ce ne dà non solo la narrazione ma anche le spiegazioni politiche, economiche, sociali, le conseguenze internazionali, attraverso una serie di riflessioni in prima persona che danno al romanzo anche il senso di un trattato di economia politica e filosofia teoretica che cita Hobbes e Machiavelli, Voltaire e Max Weber, tutti indirettamente, ma tutti riconoscibili.
Lo stile scelto dall’autore è perfettamente attinente al contenuto, c’è una scrittura limpida e snella (resa in italiano dalla traduzione di Francesco Ferrucci); trattandosi di racconto autobiografico, la voce narrante coincide con il protagonista, ma non per tutto il romanzo. In alcuni passaggi, numerosi, il narratore diventa un altro personaggio: in alcuni punti il padre, in altri la madre. L’autore anima un dialogo interno tra lui bambino prima e adolescente poi, e i genitori che raccontano e che si confidano con lui. Come se facesse una presa diretta, l’autore, senza mediare in alcun modo, inserisce le parole del padre e/o della madre e il loro punto di vista. Si ottiene così un effetto tecnico particolare, che cattura il lettore come davanti a una testimonianza corale, con focalizzazione variabile.
Ecco perché si tratta di un romanzo epico, storico e sociologico; una rivelazione.