Marco Di Porto, Edith Bruck e Vittorio Pavoncello affrontano con narrazioni diverse la medesima tragedia, quella della Shoah
Una voce sottile è il romanzo che Marco Di Porto ha dato alle stampe per Giuntina. Un volume che l’autore, giornalista e redattore della rubrica di cultura ebraica di RaiDue Sorgente di vita, ha deciso di dedicare alla propria famiglia e a una terra meravigliosa bagnata dal mare: Rodi. Isola greca, la più grande del Dodecaneso, vide i suoi residenti di religione ebraica essere colpiti, a guerra ormai quasi finita, dalle leggi razziali per poi essere deportati nei campi di sterminio nazisti. La causa fu l’odio antisemita portato dal vento dapprima fascista e poi nazista sull’isola.
Il libro, frutto della fantasia dell’autore, conserva le memorie familiari e fornisce informazioni storiche importanti grazie ad accurate ricerche. Le leggi emanate nel 1938 non risparmiarono la famiglia di Salomone
Galante (detto Solly), il nonno che Di Porto mai conobbe, se non grazie ai racconti della nonna. L’accurata ricostruzione dell’isola e del contesto europeo di allora portano il lettore nel mondo di Solly, spazzato via dalla seconda guerra mondiale e dalla Shoah, facendolo entrare nel “privato” di una comunità ebraica sefardita antichissima e che, prima delle leggi razziali, viveva felicemente e in simbiosi con la sua terra e all’insegna di un naturale dialogo interreligioso.
Il lavoro di Di Porto nasce però da una domanda di fondo, potremmo dire esistenziale e spirituale:, come coniugare la fede in Dio con l’esistenza della sofferenza e delle tragedie umane? Tema ben riassunto nella
citazione di Primo Levi che Di Porto pone in epigrafe: «C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio – sosteneva Levi – . Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco ma non la trovo».
La “Juderia”, il quartiere ebraico di Rodi, era un mondo meraviglioso e chi spesso ne tesse ancora le lodi è il testimone Sami Modiano, che visse l’identica e tragica esperienza del protagonista del libro. Un mondo, quello di Solly, nel quale s’incrociano vicende e figure diverse: Cutrera, il ragazzo cresciuto nel contesto fascista; il proprietario della libreria, che con atteggiamento bifronte approfitterà della situazione di sofferenza della sua comunità, lucrando sulla disgrazia; e poi tante figure femminili: Rachel, Judith, Rosa, la madre di Solly, la maestra Rinaldi, donne forti e determinate.
In questo romanzo ricco di sentimenti, Di Porto diviene la voce narrante, il “testimone diretto” di ciò che accade. Il libro diviene scrigno di storie e memorie. E Rodi, con la sua bellezza violentata dalla tragedia, l’ossimoro di quanto incomprensibilmente avvenne.
Dov’era Dio quando la tragedia era in corso?, si chiede l’autore. «Quel Dio che vidi, che percepii, nella mia stanza quand’ero bambino?», scrive Di Porto nella prefazione. Seppur l’autore, giustamente, se lo domandi, quel Dio lo vediamo trasudare ed emergere con forza in ogni interstizio del romanzo.
Il pane perduto edito da La nave di Teseo è invece l’ultima fatica editoriale dell’autrice, scrittrice e poetessa Edith Bruck. Sopravvissuta alla tragedia della Shoah, ha ricevuto poche settimane fa nella sua casa romana una visita inaspettata e speciale, quella di papa Francesco. «Un omaggio dovuto e voluto – ha detto il pontefice –, per rendere omaggio a una testimone che ha speso la sua intera vita raccontando l’orrore nazi-fascista attraverso libri e dibattiti e incontrando tanti giovani nelle scuole italiane».
Il pane perduto racchiude nel titolo il senso dell’intera opera. Per Bruck, ebrea ungherese, il pane è l’essenza della vita. Il pane è sussistenza, simbolo di condivisione. A sessant’anni dal
suo primo libro, l’autrice indaga nella memoria della sua infanzia e porta il lettore nel suolo polacco di Auschwitz, poi in Germania e infine in Italia.
Che fare della propria salvezza? Dice Bruck. Una domanda comune a molti sopravvissuti. Possiamo considerarlo “un miracolo”, poter restare in vita dopo aver subito tanta sofferenza, vessazioni, umiliazioni, violenze, patimenti, sete e fame. Già, perché, dopo la deportazione nel campo di Auschwitz per Edith e la sorella Judith, iniziò una nuova tragedia, quella nel campo di Dachau. «Finalmente – scrive l’autrice –, come fosse la liberazione, ci spostarono nei vagoni dalla Polonia alla Germania. Ci misero in un campo con trentadue baracche. […] E lì, un giorno, successe un miracolo! Un soldato dopo aver mangiato mi gettò addosso la sua gavetta con l’ordine di lavarla come ogni giorno. Dentro, nel fondo, aveva lasciato della marmellata che per me era la speranza, un bene del cielo e
della terra, forza per andare avanti, volontà di sopravvivere e per credere che in fondo al buio c’è la luce».
La tragedia della Shoah è difficile da raccontare, Bruck ogni volta riesce invertendo i fattori, raccontando dapprima il volto umano di quella follia omicida, così facendo fa emergere l’indicibile del male, prodotto dall’uomo. E lo fa con parole crude, nude, vere.
Proprio a Dachau (dopo essersi salvate dalle mani del boia Mengele, che aveva scelto le due sorelle ad Auschwitz), le bambine passano questa volta una selezione diversa, insieme a altre tredici ragazze vengono scelte per lavorare nelle cucine del campo. Edith ricorda: «Se una donna delle Ss non mi avesse dato schiaffi immotivati ogni mattina all’uscita dalla cucina, se non ci avessero trattenute per assistere all’impiccagione di giovani ragazzi e permesso che figli di gerarchi nazisti ci sputassero in faccia, avremmo potuto dire che eravamo state fortunate».
Poi, la marcia della morte, la liberazione e la riabilitazione. Il tentativo di riprendere una vita normale. Che non sarà facile.
Bruck ricorda la sensazione di estraneità provata in mezzo ai parenti che non avevano vissuto l’esperienza della deportazione; il tentativo di andare a vivere in Israele. Infine, racconta il suo approdo in Italia dove conoscerà l’amore della vita, il poeta e scrittore Nelo Risi.
Il libro non si ferma alle tragedie di ieri e indaga in quelle di oggi: le nuove ondate antisemite e xenofobe che stanno investendo l’Europa e conclude con una lettera inviata a Dio, sì proprio a Lui. La seconda, ricorda l’autrice, «a ottant’anni dalla prima», quando di anni ne aveva appena nove. Un libro vero, diretto, necessario.
Vittorio Pavoncello regala ai lettori un nuovo visionario romanzo, Profumo di fascismo e Sali del Mar Morto, edito da AllAround.
Siamo ancora in grado di indignarci? Questa, probabilmente, è la domanda che l’autore si è posto prima di iniziare a scrivere il libro. È il titolo stesso a farlo pensare, svelato nelle pagine finali in cui l’autore ricorda un grave fatto, un affronto avvenuto in occasione di una delle ultime campagne elettorali israeliane nel marzo 2019. In uno spot televisivo l’allora ministra della Giustizia del governo Netanyhau, Ayelet Shaked, esponente di HaJamin HeChadasch (un piccolo partito nato da una scissione alla destra del Likud), metteva in scena e in modo seducente l’apparizione di un nuovo profumo dal nome inequivocabile: «Fascism». L’esponente politica sussurrava: «per me è il profumo della democrazia». Provocazione che, fortunatamente, non produsse effetti elettorali; speriamo almeno abbia generato tanta indignazione.
Pavoncello, regista teatrale e cinematografico, giornalista televisivo, scrittore, artista in varie discipline, apre la sua narrazione sulla terrazza della casa romana dove vive; sembra una tranquilla giornata estiva ma, ben presto, si ritroverà immerso in un repentino cambiamento climatico.
L’approssimarsi di un misterioso e minaccioso temporale lo porterà a rievocare la Shoah inserendola nel contesto attuale fatto di negazionismi “climatici” e storici.
Un romanzo o un saggio? «Le risposte possibili sarebbero infinite – afferma Pavoncello –, passiamo allora per logica a chiederci cosa sia questo testo. Un libro dei morti sicuramente, non tanto nella tradizione egiziana – non scritto quindi per agevolare il passaggio, ma semmai per ricomporre (rimembrare) quel che è scomposto (smembrato). È infatti un libro della memoria, ma memoria di cosa? Della tradizione sicuramente. Uno dei termini che in ebraico conserva e trattiene il senso della “tradizione ricevuta” come un dono, noi lo traduciamo Cabala, e senza addentrarci nei meandri di una selva tanto oscura, teniamo a mente per ora solo il senso di mistero che evoca, e da cui si è partiti. Di mistero e di segretezza, ma anche di rivelazione. Rivelazione di nomi innanzitutto, non di quelli impronunciabili, ma di quelli da ricordare. Perché ricordare significa rivivere e far rivivere».