In risposta al weekend di sangue che ha portato la morte oltre 169 manifestanti, tre gruppi etnici armati: l’Arakan Army, la Ta’ang National Liberation Army e il Myanmar National Democratic Alliance Army hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che condanna fermamente “le azioni delle forze armate birmane contro i civili disarmati”. I tre gruppi hanno chiesto alle “forze armate birmane di interrompere le uccisioni e le violazioni dei diritti umani e di trovare una soluzione politica”. Hanno anche annunciato che difenderanno il popolo, se l’esercito continuerà la sua brutalità contro i civili. Sulla stessa linea si muovono le altre armate etniche. Il KNU la settimana scorsa si era rifiutata di riprendere i colloqui di pace a meno che l’esercito non avesse accettato le loro (impossibili) condizioni, tra cui l’accettazione di una mediazione internazionale e il trasferimento del potere a un governo di unità nazionale. Un obiettivo fissato dal governo dall’NLD poco prima delle elezioni di novembre del novembre scorso.
Il bagno di sangue dello scorso weekend in occasione della celebrazione – senza alcuna vergogna – della giornata delle forze armate, ha prodotto oltre 160 vittime. Schierati ad omaggiare gli assassini di Stato, c’erano gli attaché militari di paesi amici (e complici): China, India, Bangladesh, Laos, Vietnam, Pakistan e l’ospite d’onore: il vice ministro della difesa russo. Questo in contraddizione con le dichiarazioni del portavoce del Cremlino Peshkov che il 12 marzo scorso aveva dichiarato che la Russia stava valutando la possibilità di sospendere la collaborazione militare con il Myanmar. E per mettere una pezza alla imbarazzante presenza, con la tradizionale protervia russa, il giorno successivo alla parata militare e il contemporaneo bagno di sangue, lo stesso portavoce Peshkof dichiarava ai giornalisti: ” abbiamo legami di lunga data e abbastanza costruttivi con il Myanmar. Ma questo non significa assolutamente la nostra approvazione di quei tragici eventi che si stanno verificando nel paese”.
Così mentre a Naypidaw Il vice ministro russo festeggiava con cena di gala e parata militare, alcuni villaggi dello Stato Karen, venivano bombardati via aerea.
Il primo attacco aereo in assoluto dal colpo di stato del 1° febbraio, che ha avuto come conseguenza la fuga di oltre 3.000 birmani Karen in Tailandia, mentre altre 2500 persone sono tutt’oggi nascoste nella giungla e lungo il fiume che separa la Birmania dalla Tailandia. I militari hanno dato libertà di sparare a volontà in tutto il paese usando mitragliatrici, mortai e tutte le più aggiornate armi antisommossa. Da giorni girano per i quartieri delle città e sparano ovunque nelle case. Di molte delle persone arrestate non se ne sa più nulla, mentre altre sono entrate in carcere in piedi e ne sono uscite cadaveri, il giorno dopo. Un esercito ben armato, grazie alle forniture cinesi, russe, israeliane, ucraine, pakistane.
E, come denunciato congiuntamente da Rete Pace e Disarmo, Amnesty, Italia-Birmania.Insieme e Atlante delle Guerre, alcune delle munizioni usate per uccidere i manifestanti sono prodotte dall’italiana Cheddite.
Al contrario, di grande rilevanza la durissima condanna delle violenze e uccisioni da parte delle forze armate di 12 grandi paesi, tra cui l’Italia. Ma il regime rimane totalmente sordo e impermeabile a qualsiasi critica.
Chi poi tra i governi, inclusa la UE, confidava nell’ASEAN come leader negoziale tra i militari birmani e la vastissima opposizione, si deve ricredere. Le divisioni interne in questa organizzazione del sudest asiatico, sono enormi, nonostante il fatto che la crisi birmana si stia allungando sui paesi vicini, a partire dalla Tailandia, che si sta prepaprando a ricevere migliaia di rifugiati. Il consiglio di sicurezza ONU riunito a porte chiuse domani si spera possa partorire decisioni che vadano oltre le mere dichiarazioni di condanna come quella che segue.
“Condanniamo l’uso letale della forza” in Myanmar “contro persone disarmate. Un militare professionista segue standard internazionali di condotta ed è responsabile di proteggere, non di fare del male alla gente che è chiamata a proteggere. Sollecitiamo le forze armate birmane a cessare la violenza e a lavorare per ripristinare il rispetto e la credibilità che ha perso tramite le sue azioni”, si legge in un comunicato congiunto dei capi delle forze armate di Australia, Canada, Germania, Grecia, Italia, Giappone, Danimarca, Olanda, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Regno Unito e Stati Uniti.”
Se Russia e Cina non ponessero il veto, il Consiglio di Sicurezza ONU potrebbe approvare, quello che sarebbe un primo passo concreto politicamente importante: un embargo generale sulle importazioni di armi o di strumenti dual-use. Anche se, visti gli armamenti già oggi a disposizione dell’esercito birmano, sarebbe come chiudere il recinto dopo che i buoi sono scappati.
Si potrebbe inoltre costituire, come propone il Global Justice Center, un tribunale ad hoc per perseguire i crimini contro l’umanità, compresi quelli che si verificano nel contesto delle attuali proteste, ovvero, crimini di guerra e genocidio. Come è stato fatto, tra gli altri, per l’ex Jugoslavia, Ruanda, Cambogia e Sierra Leone. Ma i tempi e le procedure per farlo, non sono certo brevi e i costi nel frattempo, in termini di vittime sarebbero elevatissimi. In assenza di iniziativa significativa dell’ONU si prevede la trasformazione di una opposizione pacifica in un conflitto armato impari, che vedrebbe coinvolte una coalizione di armate etniche, le cui parti politiche stanno già stilando una nuova costituzione democratica e federale. Un esercito federale democratico è ciò che probabilmente potrebbe nascere da questa crisi. Certo la storia moderna, a partire dalla guerra del Vietnam, mostra che non sempre è scontata la vittoria degli eserciti regolari.