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Siria: ritratto di un paese che muore

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La Siria non è una nazione: è un simbolo. È l’esempio più drammatico, e ahinoi evidente, di cosa sia la guerra, di dove possa arrivare la malvagità umana e di quale abisso possa raggiungere la follia di un governante disumano e disposto a tutto pur di conservare il proprio potere. La Siria, dieci anni dopo, di fatto, non esiste più. È un cumulo di macerie fumanti, un insieme di rovine, un crogiolo di drammi e disperazioni personali che costituiscono una colossale disperazione collettiva. La Siria è l’emblema dell’ultimo decennio e dei nostri errori: l’indifferenza dell’Occidente, le collusioni dei tanti, troppi che hanno baciato la pantofola di Assad, la mancanza di rispetto per la vita e le immagini che non scorderemo mai, ad esempio quella del piccolo Aylan disteso sulla battigia della spiaggia turca di Bodrum, annegato a causa della crudeltà di coloro che hanno preferito voltarsi dall’altra parte piuttosto che aprire corridoi umanitari.
La Siria è un incubo di cui, per troppo tempo, non si è interessato quasi nessuno. Ci è entrata in casa solo con l’ascesa dell’ISIS, quando gli attentati hanno cominciato a sconvolgere la nostra quotidianità e l’Europa è stata costretta a rendersi conto di non essere più il centro del mondo e di essere, al contrario, diventata l’epicentro del malessere globale, lo sfogatoio dell’odio accumulato da interi popoli per anni, se non per decenni, il nemico ideale da attaccare, annientare, mettere in ginocchio con attentati che hanno colpito per lo più i giovani, le vittime più facili contro cui scagliarsi e quelle che destabilizzano maggiormente la nostra società, mandando in frantumi ogni forma di coesione sociale, i principî dell’integrazione e dell’accoglienza, il valore della solidarietà internazionale. La verità è che siamo impazziti: dopo Charlie Hebdo, certo, ma soprattutto dopo il Bataclan, la strage di Nizza e quella di Manchester, quando abbiamo visto morire sotto i nostri occhi ragazzi che si stavano divertendo a un concerto, persone che stavano passeggiando allegramente nel giorno della festa nazionale francese, altri ragazzi che si stavano godendo la musica Ariana Grande, una cantante amatissima dagli adolescenti.
La Siria ci è entrata in casa come maledizione, non come pensiero. L’abbiamo odiata perché ci portava il terrore dentro le mura, non certo compresa, studiata, amata per ciò che era e per ciò che ci auguriamo che torni, primo o poi, a essere.
Dieci anni dopo l’Europa è completamente diversa, squassata dalla crisi economica e da quella pandemica, con rapporti equivoci e pericolosi con Erdoğan per quanto concerne la gestione dei migranti, ridotta a fortezza, incapace di provare amore per il prossimo e per nulla scalfita dall’orrore cui assistiamo di fronte alle nostre coste. La guerra siriana ci ha cambiato in maniera continua e sconvolgente, sotterraneamente, mutando i nostri equilibri e distruggendo le nostre residue certezze.
Dieci anni dopo non rimane più nulla, se non l’orrore e il desiderio di ciò che resta di quello che fu un meraviglioso Paese di tornare a esistere. Se ancora è possibile, il che presuppone la deposizione del sanguinario Assad e l’abbandono del campo dei suoi complici.

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