Lei è un’atleta molto apprezzata nel suo ambiente. Voleva un figlio. Ma quando è rimasta incinta la società non le ha più pagato lo stipendio. Questa storia medioevale esplode giusto il giorno della Festa della donna e di colpo solo riporta indietro tutti di decenni, forse secoli. Ora è chiaro: o lavori o fai la mamma. In poche frasi scritte dalla Volley Maniago Pordenone si riassume qual è la condizione delle donne in Italia. In questo caso è emerso chiaramente il “licenziamento” per maternità, a fronte di migliaia di giovani lavoratrici costrette a firmare le dimissioni in bianco il giorno in cui vengono assunte, atto che viene usato quando comunicano la gravidanza. Lara Lugli oggi è una ex giocatrice del Volley Pordenone. Le hanno negato un pagamento di mille euro perché è rimasta incinta senza aver comunicato in anticipo l’intenzione della sua maternità al club. Lei infatti chiedeva il versamento dell’ultima mensilità prima dell’interruzione del contratto. Per tutta risposta la società si è difesa dal decreto ingiuntivo della Lugli sostenendo che avrebbe violato il contratto firmato nella stagione 2018-19 “vendendo prima la sua esperienza con un ingaggio sproporzionato e nascondendo poi la sua volontà di essere madre. Una scelta che ha portato la squadra a doversi privare di lei a stagione in corso, perdendo di conseguenza molti punti sul campo e infine anche lo sponsor”. E’ stata la stessa Lugli a denunciare il caso sulla sua pagina social. I fatti si sono verificati a marzo del 2019. Ed ecco cosa ha scritto la giocatrice: “Rimango incinta e il 10 marzo comunico alla società il mio stato, si risolve il contratto”. Amarezza. Sconfitta. E dolore. Il mese seguente l’atleta avrebbe perso il bambino a causa di un aborto spontaneo. In seguito, la stessa avrebbe chiesto al club di saldare lo stipendio di febbraio “per il quale avevo lavorato e prestato la mia attività senza riserve”. In pratica il club pretendeva che Lara dicesse loro se e quando sarebbe rimasta incinta. E comunque se lo avesse comunicato non l’avrebbero mai e poi mai ingaggiata. Non potendola “usare” in campo. L’Associazione nazionale atlete (Assist) ha annunciato una lettera al Presidente del Consiglio Mario Draghi e al presidente del Coni Giovanni Malagò per chiedere di intervenire: “Questo caso è emblematico perché l’iniquità della condizione femminile nel lavoro sportivo è talmente interiorizzata che non solo la si ritiene disciplinabile, nero su bianco, in clausole di un contratto visibilmente nulle, ma addirittura coercibile in un giudizio, sottoponendola a un magistrato, che secondo la visione del datore di lavoro sportivo, dovrebbe condividere tale iniquità come fosse cosa ovvia. In questa spregiudicata iniziativa si annida il vero scandalo culturale del nostro Paese, che è giunto al punto da obnubilare la coscienza dei datori di lavoro sportivi, fino a dimenticare cosa siano i diritti fondamentali delle persone”.
(Foto Unione Sarda)