Ha tante chiavi di lettura lo storico – aggettivo abusato ma di certo, questa volta, opportuno – viaggio di Papa Francesco in Iraq. E’ una visita che restituisce, almeno idealmente, un posto in Medio Oriente alle minoranze cattoliche, quelle che forse di più hanno pagato il prezzo del conflitto seguito all’invasione americana del 2003. Le decine di migliaia di cristiani uccisi o costretti alla fuga tanto dall’Iraq quanto dalla vicina Siria, Paesi uniti nel destino di martiri (anche) dell’Isis, si sono lasciati dietro oltre a tanti drammi personali un vuoto che è politico, non solo religioso, perché rappresentavano quella “diversità” e “complessità” di un pezzo di pianeta inaridito poi dalla guerra.
La visita del Papa non è però solo questo, non è solo la testimonianza (rischiosa a livello di incolumità personale in una Terra ancora instabile) di un pastore di anime che parla a chi in lui si rivede, ai suoi fedeli. La visita di Francesco è un enorme promemoria sugli orrori e gli errori delle guerra e sul meccanismo di oblio che puntualmente segue. L’invasione americana del 2003 venne contestata massicciamente tanto dalla Chiesa quanto da un enorme movimento pacifista, nella sua – per ora ultima in ordine di tempo – planetaria manifestazione di esistenza. Quel conflitto, dopo l’11 settembre, doveva servire a portare sicurezza, secondo Washington; è invece diventato un catalizzatore di violenza: dalla brutale guerriglia anti-americana fino alla nascita dell’Isis che ha poi sparso morte e dolore anche in Europa. Un monumento, macabro, all’inutilità dei conflitti e alle bugie di chi vuole “venderli” all’opinione pubblica come rapidi e indolori.