Milioni di persone apriranno il proprio computer e, come da routine, apparirà l’home page di Google. Oggi è l’8 marzo e quindi il disegno di apertura – il doodle, in gergo – riguarda le donne.
Tutto bene, dunque? No, il doodle scelto dal colosso informatico vede in primo piano due mani che si stringono, una bianca e una nera. Sarebbe un bel segnale se non fosse che Google in questi mesi non ha ancora risposto convintamente alle accuse lanciate da una sua dipendente, Timnit Gebru, che aveva accusato l’azienda di non fare niente per combattere i pregiudizi etnici e di genere nei programmi di intelligenza artificiale, in particolare nei software di riconoscimento facciale. Timnit Gebru, etiope di nascita e studi di eccellenza negli Stati Uniti, a Stanford, aveva descritto il suo senso di frustrazione in una mail a suoi colleghi: una scelta che le era costato il licenziamento.
Nell’anno di Black Lives Matter, invece di cogliere il senso profondo dei rilievi di Timnit Gebru, Google ha scelto il pugno di ferro. Oltre all’allontanamento della studiosa etiope il colosso informatico ha licenziato Margaret Mitchell, la responsabile del team di ricerca sull’etica e l’intelligenza artificiale, accusandola sostanzialmente di aver compiuto «molteplici violazioni del nostro codice di condotta e delle nostre norme di sicurezza, tra cui l’uscita di documenti riservati sensibili e dati privati di altri dipendenti». Prima del licenziamento di Margaret Mitchell avevano sbattuto la porta anche due ingegneri, David Baker e Vinesh Kannan. Entrambi lamentavano l’ipocrisia di un’azienda che promette attenzione alle diversità, ma le ignora al proprio interno. Per tutte queste ragioni il doodle per l’8 marzo e ancor di più il breve disegno animato che campeggia nella home di Google, è un goffo tentativo di pinkwashing.
Potrebbe sembrare un tema femminista, ma non lo è. O meglio non è solo un problema di genere: è soprattutto una questione di business. L’intelligenza artificiale è un affare miliardario, con ripercussioni sulla vita di tutti i giorni. L’alert che aveva sollevato Timnit Gebru riguardava proprio la discriminazione che gli algoritmi di Google creano nei confronti delle persone nere. Un problema – a dire il vero – denunciato da molti, non solo negli Usa. Il caso limite è la Cina che grazie a questa tecnologia è in grado di sorvegliare e isolare quasi l’intera popolazione uigura. L’intelligenza artificiale trova la sua applicazione economicamente più allettante nell’industria bellica, sia con armi sofisticate sia con software di sorveglianza e intelligence. Il confine etico nell’uso di questi sistemi è continuamente in movimento. Il 20 gennaio il Parlamento europeo ha votato una relazione nella quale si chiede che l’intelligenza artificiale non possa sostituire l’essere umano e che mai lo sollevi dalle sue responsabilità in campo decisionale.
Ecco alcuni buoni motivi per partecipare alla prossima edizione del Festival dei Diritti Umani, dal 21 al 23 aprile, intitolata: Algoritmocrazia.