BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Giulietta Masina e la festa della donna

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Vorrei che quest’anno le donne dedicassero idealmente l’8 marzo a Giulietta Masina di cui si festeggia il Centenario della nascita. Credo che Giulietta sia tra i personaggi dello spettacolo più amati in Italia, ma assai poco nota nella sua vicenda umana e artistica; pur avendo interpretato due film Premi Oscar del marito, La strada e Le Notti di Cabiria. Nel primo film muore, nel secondo ci va molto vicina e non una sola volta. All’inizio della storia la incontriamo a malpartito nella colluttazione con un pappone che cerca di affogarla nel Tevere per strapparle la borsetta con i soldi. Alla fine del film per puro miracolo si salva dallo strapiombo in cui cerca di spingerla il finto ragioniere che ha promesso di sposarla solo per derubarla di tutto ciò che possiede.

Gelsomina, la protagonista di La Strada, perde la vita ma col suo sacrificio dona un’anima al brutale Zampanò che non sapeva di averla, e di notte, in riva al mare, sotto un cielo di stelle, cade in ginocchio sulla sabbia singhiozzando irrefrenabilmente.

Cabiria, sprofondata nella più nera disperazione, tradita e malmenata per l’ennesima volta, non vuole più vivere, grida, invoca il suo carnefice di ammazzarla. Ma quando a fatica si rialza in piedi e barcollando esce dal bosco ritrovando la strada dei Castelli, una comitiva di ragazzi che ha finito la scampagnata la circonda strimpellando le chitarre; una di loro le si rivolge con un sorriso e le dice: “Buona sera!” Lei che ha il viso solcato di lacrime e mascara, alza lo sguardo come un cane bastonato, incontra quella inaspettata carezza di una mano ignota, e a sua volta ritrova il sorriso; con gli occhi ancora lacrimosi si volta intorno e poi dirige lo sguardo verso la macchina da presa, come se volesse rivolgersi direttamente a noi spettatori, anzi a tutte le donne come lei. Il suo è un muto struggente incoraggiamento: “Qualsiasi cosa vi succeda, qualsiasi disgrazia, ricordatevi che voi siete più forti, perché la vita ha sempre in serbo una speranza con cui alzare di nuovo la testa e ricominciare”.   

Nessun sopruso, nessuna violenza fisica riuscirà mai a piegare la donna, la quale per quanto ‘concussa’ e angariata ce la farà comunque a risollevarsi, essendo portatrice di vita. Senza di lei non staremmo qui a parlare, non ci sarebbe né il genere umano, né il mondo conosciuto e infine forse neppure il Padreterno che ci ha creato per ‘compiacersi’ nella creatura umana.

La donna sta all’origine della vita, di ogni vita come ci mostra il bellissimo dipinto di Courbet. Una verità semplice e soprannaturale, con cui ci rifiutiamo spesso di fare i conti; nella nostra religione lei è addirittura madre di Gesù, Dio incarnato su questa terra, e se andate in San Pietro a soffermarvi di fronte alla pietà di Michelangelo, ve ne renderete conto.

L’esistenza dell’umanità, da millenni, è una storia di guerre e di stragi, di sangue e di lutto. Ma, per nostra buona sorte, parallelamente scorre un’altra vita, di poesia e di cultura, di conquiste civili, di infaticabili indagini e scoperte scientifiche che ci hanno permesso di sconfiggere, secolo dopo secolo, le malattie che ci minacciano e a volte ci assediano, come sta accadendo in questa tribolata stagione. È bastato un virus sconosciuto per restituirci alla nostra estrema fragilità, vittime quasi impotenti di un organismo visibile unicamente al microscopio.

Fermiamoci allora a considerare quanto siamo fortunati ad essere stati cacciati dall’Eden nella notte dei tempi, dal momento che in quel giardino di presunte delizie avremmo trascorso una monotona vita da replicanti privi di coscienza, felici di nulla.

Come esseri umani abbiamo scelto di conquistare la nostra felicità attraverso la cognizione del bene e del male, accettando un destino di fatica e di sofferenza, ma tenendo la schiena dritta nell’orgoglio di aver preferito guadagnarci ogni traguardo a mani nude, con il pane della scienza e il libero arbitrio; e la gioia del sesso assaporato mordendo il frutto proibito.

Da quel giorno, per qualunque uomo, la donna ha surrogato l’incontro con la divinità, possedendo una bellezza che non teme paragoni in questo mondo; ogni maschio vi dirà che non c’è paesaggio, o animale, o opera d’arte, o scorcio di creato, che sia più affascinante e desiderabile della femmina. La nudità della donna è stata rappresentata milioni, ma che dico, miliardi di volte con desiderio immutabile, compulsivo, ossessivo, da quando l’essere umano ha inciso la prima forma femminile sulla parete di una caverna, o imparato a utilizzare le parole per esprimere ciò che vedeva e ogni altra emozione.

Nel suo libro “Una donna con tre seni, Le donne nel cinema di Federico Fellini”, Gabriel Bensimhon, docente all’Università di Tel Aviv, afferma nel capitolo intitolato God is Woman (Dio è donna):

(traduco dall’inglese) “Molti registi hanno collocato la donna al centro dei propri film. Fellini è andato oltre e ha trasformato la donna in Dio. Dio è donna, dice Fellini nella maggior parte dei suoi film. E procede nella istituzione di una nuova religione privata con la donna a suo nucleo.”

Più avanti riflette:

“La donna ha molti aspetti. L’uomo è sempre lo stesso, immutabile, un bambino stupefatto che studia l’essenza della donna: chi è? madre? sorella? dea? diavolo? puttana? santa? colei a cui sottomettersi? da conquistare? da pregare o alla quale ribellarsi? è amica o nemica? ci coccola o ci tortura? ci incoraggia o ci castra? Egli (Fellini) la analizza di nuovo in ogni film, ma come una Dea lei sfugge a ogni definizione; rimane costantemente un enigma, un rompicapo, un essere dalle multiformi sfaccettature, ed egli l’affronta come un fanciullo curioso e meravigliato, adorandola, contemplandola simile a un miracolo, un portento, un soggetto di culto, di religione, di fede e salvezza”.

Mi pare che il ragionamento non faccia una piega, e serva all’autore per sospingerci nelle epoche più remote dell’umanità quando la donna divinizzata era oggetto di culto:

“Fellini che si sottrae all’ascetismo sessuale della religione Cattolica, e al suo crudele, alienante atteggiamento verso le donne, cerca di ricondurre l’immagine femminile della sua Madonna alle fonti originarie. All’era matriarcale quando la divinità era femminile, sessuale e non minacciosa. Così era Iside, la grande dea che governò l’Egitto per migliaia di anni; Pachamma – dea degli Inca, madre della terra e madre del mondo, che creò il grande mare, l’elemento in cui è simboleggiata l’essenza stessa della femminilità, la matrice da cui nacque anche Virkucha, uomo e creatore del mondo. Lo stesso vale per le grandi dee della Grecia e di Roma antica: Artemide/Diana, Venere/Afrodite, Athena/Minerva. A differenza di Maria, la cui femminilità fu soggiogata dal Cristianesimo, queste dee sono cariche di femminilità e sensualità.

L’Artemide di Efeso mostra grappoli di seni nel suo busto di bronzo, e la Venere di Willendorf, una statua arcaica di pietra di 35.000 anni prima di Cristo, è una dea nuda, dai seni vasti e grosse gambe, ma senza testa (senza volto), non perché sia andata perduta, ma perché non è mai stata al suo posto, evidentemente non necessaria per la femminilità. Fin dalle sue origini la Cristianità vide il male e il diavolo nella donna; l’Inquisizione causò l’oppressione sociale e l’uccisione di milioni di donne (passim). Fellini va oltre e mette insieme Maria e Maddalena nella sua raffigurazione della donna – santa e puttana. La donna dell’antica Roma, dea del sesso, che gode della sua lussuria all’interno di una società promiscua, lascia libera la propria sensualità. E questo ovviamente non solo in Satyricon, scenario dell’antica Roma, ma anche in altri suoi film”.

Magari non è tutto esattamente così, su alcune proposizioni ci sarebbe da discutere, tuttavia Bensimhon ci offre una nuova prospettiva da cui onorare la Festa della Donna in questo 2021, dal momento che in altre parti del libro si sofferma specificamente su Giulietta Masina. Ed è proprio a lei che mi preme arrivare in questo articolo.

Qual era la relazione tra Federico e Giulietta? Si arrovella lo scrittore in buona e affollata compagnia. Che ruolo aveva la moglie nella vita del regista? A giudicare da 8 ½ – prosegue – lei non appariva certo la più amata e desiderata delle donne: una creatura dai capelli corti, di taglio maschile, un’intellettuale indurita dagli occhiali, con un corpo di appena 45 chili, e l’atteggiamento che trasmette freddezza, una persona perennemente insoddisfatta, ringhiosa, provocatoria.

Mi domando: è così che viene percepita dall’esterno Luisa, la moglie di Guido interpretata da Anouk Aimée, mirabilmente capace di assumere atteggiamenti, espressioni e movenze di Giulietta nei minimi particolari, quasi fosse un avatar?

Ricorda Bensimohn:

“Quando li incontrai a Parigi in occasione della presentazione di Satyricon, come ospiti della trasmissione “Hôte du dimanche” (Ospite della domenica), rimasi colpito dal grande amore che c’era tra i due, e la stima che manifestavano l’uno per l’altra. Fellini era al vertice della fama grazie ai suoi successi e agli Oscar ricevuti per La strada, La dolce vita e 8 ½, ed era nel pieno del fascino maschile, della virilità; le signore parigine, per non parlare delle star cinematografiche, lo cercavano, lo corteggiavano, eppure lui era tutto per Giulietta. Fellini era anche timido, ben lontano dal personaggio di Guido in 8 ½ o di quel Don Giovanni di Casanova.”

Ecco dunque che lo scrittore (perdoniamogli le trascurabili inesattezze) ci restituisce la doppia faccia della relazione tra i due artisti e conclude:

“Il rapporto tra Giulietta Masina e Fellini consisteva in una combinazione tra la coppia sposata e la condizione di due colleghi uniti dal lavoro e dalla creatività”.

Questa osservazione contiene, se non la verità assoluta (che non esiste), certamente il primo passo per accostarsi ad essa, il cauto attraversamento della soglia per entrare in punta di piedi nei segreti della coppia. Di cui mai si saprà quale fosse l’infrangibile elemento di coesione, in accordo con l’antico adagio popolare: “Tra moglie e marito non mettere il dito”. Purtuttavia seguendo i sassolini bianchi di Pollicino che Federico ha intenzionalmente disseminato lungo la sua strada di regista, dal primo film Lo sceicco bianco del 1952, fino a Ginger e Fred del 1985, possiamo rinvenire quanto ci serve per cercare di comprendere meglio ciò che Fellini voleva che noi sapessimo; non certo la cronaca del suo matrimonio, e meno ancora una vuota lettura sociologica, ma la sua più autentica testimonianza d’artista, il quale per propria natura racconta sempre qualcosa di universale.

Nel mio libro “Giulietta Masina”, il racconto della sua vita che qualcuno ha avuto la gentilezza di definire un “romanzo d’amore”, credo di aver sciolto qualche nodo su un tema così attraente per ogni lettore; cioè quale fosse il legame più attendibile tra Giulietta e Federico, tra i due coniugi ma anche tra i due cinematografari sul set, ruoli che fatalmente finivano sovente per confondersi.

Ed è proprio per la complessa figura femminile che Giulietta riunisce in sé, la coesistenza sul medesimo piano della sofferenza e della felicità comune a tutte le sue simili, che propongo di dedicare a lei la Festa delle donne ed eleggerla a icona in ogni manifestazione di cinema di quest’anno che è il suo Centenario. Un’occasione ormai rara di riguardare con attenzione i suoi film; anzi di con/templare come meritano almeno i due capolavori da Premio Oscar, La Strada e Le notti di Cabiria.

In questa interminabile stagione di abusi, di prepotenze, di percosse, di omicidi commessi ogni giorno a danno dell’altra metà del cielo, Giulietta può rappresentare, meglio di ogni altra attrice del cinema italiano, la figura di riferimento di cui le donne – e gli uomini – hanno un estremo bisogno, per ritrovare sé stessi nell’armonia e nel rispetto.


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