Di questo viaggio di Francesco in terra irachena, là dove fino a qualche anno fa tutto sembrava perduto, rimarrà soprattutto il suo messaggio di pace. L’incontro a Najaf con l’ayatollah al-Sistani, massima autorità del clero sciita, la visita a Ur dei Caldei, terra da cui partì il cammino di Abramo e il percorso di Dio al fianco dell’uomo, la tessitura democratica compiuta in una regione tanto ostile e martoriata, la predicazione d’amore nelle stesse zone in cui il Daesh ha compiuto un sistematico scempio del concetto stesso di umanità, tutto ciò pone il Santo Padre nel solco del poverello di Assisi, di cui peraltro porta, non a caso, il nome.
Il viaggio di Francesco, infatti, non può essere compreso se non si parte dal presupposto che è la negazione dello spirito di crociata talvolta perseguito anche da alcuni settori della Chiesa cattolica, che è l’opposto del “Deus vult”, dell’imposizione, della fede irrispettosa e calata dall’alto. Quello di Francesco, lo ribadiamo, è un Dio d’Avvento, il Dio della misericordia e del Vangelo, il Dio che si fa uomo e raggiunge la massima prossimità nei confronti dei suoi fratelli, il Dio universale che riunisce i credenti di tutto il mondo e ricuce le lacerazioni del passato.
La Chiesa di Francesco è la Chiesa degli ultimi, dei deboli, dei diseredati, degli oppressi, delle vittime, dei poveri, di chi è stato sconfitto e ha paura di rialzarsi, di chi ha peso ogni speranza e ha un disperato bisogno di fratellanza.
Il viaggio di un uomo anziano in un contesto martoriato, per giunta nel pieno di una pandemia che rende ogni spostamento difficile, se non impossibile, incarna lo spirito di una missione. È lecito, dunque, definire Francesco un pellegrino, un costruttore di ponti, un uomo alla costante ricerca di beatitudine e un donatore di gioia là dove anche solo parlare di questo sentimento appare quasi un controsenso.
Papa Francesco, ancor più di Giovanni Paolo II, è un pontefice globale, la cui elezione ha segnato la conclusione definitiva del Ventesimo secolo e l’inizio di una nuova fase storica. Del resto, proprio Francesco è stato il primo ad affermare che non siamo al cospetto di un’epoca di cambiamento ma di un cambiamento d’epoca, di cui lui peraltro è uno dei principali artefici e protagonisti.
Quanto all’apertura dell’Iraq al risarcimento nei confronti delle donne, per lo più yazide, vittime di violenze e stupri ad opera delle belve dell’ISIS, è un altro segnale della ricostruzione di una comunità globale lacerata dalle incomprensioni, dai conflitti e dalla tragica eredità di un passato di odii finora mai davvero superati.
La presenza di Francesco è la vittoria di chi ha ancora fame e sete di pace, in un mondo dilaniato dalla violenza e sottoposto alla spaventosa pressione di un’emergenza sanitaria cui nessuno era preparato a far fronte. È la riaffermazione di una certa idea di mondo, di confronto, di dialogo, la sconfitta senza appello di tutti coloro che puntano sulla divisione e sulla rottura, sulla paura e sulla distruzione di equilibri già di per sé fragili.
Francesco ha cambiato l’immaginario collettivo e il modo di ragionare di culture fino a poco tempo fa in conflitto. L’auspicio è che venga ascoltato anche dai cosiddetti potenti, da coloro che potrebbero trasformare il suo prezioso messaggio in un’azione politica concreta, ma anche se ciò non dovesse accadere, gli sconfitti sarebbero loro, sordi a un messaggio di coesione e uguaglianza di fronte al quale nessuno può rimanere indifferente e dopo il quale nulla sarà più come prima.
P.S. Un pensiero affettuoso a familiari e amici di Carlo Tognoli, sindaco di Milano negli anni Ottanta, socialista nel vero senso della parola, scomparso nei giorni scorsi all’età di ottantadue anni. È stato senz’altro un protagonista di una stagione della politica che, al netto dei suoi difetti, dei suoi limiti e dei suoi non pochi lati oscuri, abbiamo finito col rimpiangere. Il che spiega, meglio di qualunque analisi, le ragioni del nostro disincanto.
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