C’è un Dante poco conosciuto, che si legge poco a scuola e che non appartiene ai grandi circuiti di divulgazione sul poeta.
Si tratta di un aspetto della poesia di Dante che ha trovato ambito di realizzazione nei canti XXI e XXII dell’Inferno: un Dante poeta comico. Per parlare di comico nella Divina Commedia bisogna prima intendere il senso di questa parola sia come significato, sia come direzione.
Bisogna chiedersi cosa voglia dire comico, e comico per Dante, e verso dove vada il comico di Dante.
Per Dante comico è lo stile medio, che sta a mezzo tra quello tragico e quello elegiaco. Ma i critici hanno voluto indagare anche sul comico di Dante inteso in senso moderno.
Oltrepassando la città di Dite, Dante e Virgilio giungono in un luogo, o forse in un’accozzaglia di luoghi, che il Poeta chiama Malebolge, e qui lo scenario è sublime (nel senso kantiano del termine): valli paludose, dirupi, pendii scoscesi, fumi e vapori e qui tutto cambia, sembra assumere un altro aspetto.
Al demonio mitologico, iroso e appassionato, succede il diavolo cornuto, essere grottesco o piuttosto i diavoli che vanno in frotte maliziosi, bugiardi, plebei, osceni. Al vivo movimento delle bufere e delle grandini succede la materia in decomposizione, la faccia umana sparisce: ha caricature e sconciature di corpi.
E sono così deformati che viene da domandarsi se sono uomini o bestie.
Si è parlato di comicità dantesca. L’ha negata Francesco De Sanctis, l’ha affermata Benedetto Croce, ne hanno precisato i caratteri realistici specifici Luigi Pirandello ed Ernesto Parodi.
De Sanctis fu il primo a sostenere che la forma estetica di questo mondo è la commedia, rappresentazione dei difetti e dei vizi. Qui “manca la grandezza degli attori e manca la pietà degli spettatori”.
Anche un critico d’eccezione come Pirandello è d’accordo con De Sanctis sostenendo che non solo il XXI canto, ma tutto Malebolge è comico. Per Pirandello, però, Dante non può ridere dove Dio ha punito. Se comico c’è, e non è un comico che suscita ilarità, semmai un sorriso ironico, questo non è nella materia ma nell’animo del Poeta che elabora questa materia. Così conclude che la frase comica è usata da Dante solo per ottenere un effetto di più cruda ripugnanza. E allora non è comicità ma realismo, amaro e grottesco sarcasmo.
Un sarcasmo che non può essere commedia vera e propria, ma piuttosto dramma.
Un dramma però che non può rappresentare tragicamente perché la materia è troppo buffa, indegna e solo meritevole di disprezzo. Quindi si ritorna alla commedia che va però intesa in questo senso.
Lo stesso riso amaro lo vede De Sanctis e lo vede anche Salvatore Quasimodo che, giustamente, sottolinea in Dante la presenza di una vena realista nelle Rime petrose.
Per essere più chiari si potrebbe delineare una scala di gradazioni del comico.
C’è un comico della parole. Dante crea delle parole che diventano comiche perché sono prodotte dalla fantasia verbale non giustificata da fini pratici. Per esempio, l’arzanà, termine assai vicino all’arabo.
Ma forse sono più comici i termini e le espressioni ripresi dalle forme dialettali: t’acquatta, accocchi, tigna e l’elenco potrebbe continuare.
Ed è senza dubbio comica tutta l’onomastica dei diavoli i cui nomi, elencati come in un appello, sono talvolta inventati, talvolta ripresi dalla denominazione comune medievale.
Nella letteratura medievale il diavolo era chiamato Lucifero o Satana ma per denominare i demoni si usavano vari nomi. Questi nomi potevano essere associati al signore delle tenebre o derivati dalle divinità classiche o da esseri ritenuti malvagi dagli stessi autori classici: Apollo, Cerbero, Caronte, Vulcano.
Alcuni nomi erano ironici: Tenebrifer, Coconifer, Krumnase (naso ad uncino), ecc. Alcuni nomi provenivano dal folklore o erano beffardi: Pantagruel, Libicocco, Cagnazzo, Radamanto.
Commentatori antichi e moderni hanno fatto le più disparate supposizioni riguardo all’origine, al significato e agli eventuali sensi allusivi dei nomi dati dal Poeta ai dieci demoni. E anche del primo di questi diavoli, Malacoda, si è cercato di interpretare il nome. Secondo il Buti e altri significherebbe “mal fine”, ma forse basta tener presente che il nome preannuncia solo qualcosa di cattivo, di malvagio. Questi diavoli sono comici anche al di là dei loro nomi, “i diavoli sono concepiti in senso cromatico quanto i dannati lo sono in senso mostruoso”. Sono diavoli alla mano, si può venire a patti con essi, non sono grandiosi né terrificanti, abitano il mondo, si mescolano alla vita di ogni giorno, tentano di ingannarci e possono essere ingannati e scornati.
Hanno un colorito e un sapore vistosamente popolaresco, da comari da cortile
“Vuoi tu ch’l tocchi?
Diceva l’un con l’altro, in sul groppone?
E rispondien: Sé, fa che gliel’accocchi”
“O Rubicante, fa che tu li metti
Li unghioni a dosso, si che tu lo scuoi”
Sembra di assistere ad una scena di cortile del nostro caro Nino Martoglio.
Ancora. C’è un comico nelle similitudini. Dante usa le similitudini innumerevoli volte nella Divina Commedia.
Innanzi tutto Dante paragona la bolgia all’arsenale veneziano quando d’inverno si fa bollire la pece per calafatare le imbarcazioni che hanno subito danni. A un certo punto Dante comincia a paragonare i dannanti ad animali di ogni specie e fattura.
Annullata nella pece, l’immagine dell’uomo appare in gesti animaleschi, in attitudini mostruose.
Queste attitudini animalesche in cui appaiono deformati i peccatori sono scelte specialmente tra gli anfibi: dorsi di delfini, rane esitanti tra la terra ferma e l’acqua, lontre impotenti nella cattura, anatre che si tuffano per scampare alla presa del falcone. Insomma, è ricco e vario il bestiario dantesco in questi canti.
Per finire c’è il comico che suscita lo stesso Dante come personaggio. Parodi definisce Dante il più comico elemento della Divina Commedia, soprattutto per le sue paure.
Sì, Dante ha paura come avrebbe paura qualsiasi essere umano che si trovasse in quelle circostanze.
Sbigottisce montando sulle spalle di Gerione ed ha paura al pensiero di essere accompagnato dalla brigata dei dieci diavoli.
Ma la paura di Dante sull’Acheronte che addirittura lo fa svenire, il terrore davanti ai diavoli di Dite porta il lettore ad emozionarsi e a temere con lui. Nella bolgia dei barattieri Dante ci spinge a sorridere della sua paura. L’immagine del Poeta agens che, dietro consiglio di Virgilio, si “acquatta dopo uno scheggio” per non essere visto dai diavoli, Dante che aspetta “quatto quatto” che Virgilio gli dia il via libera, è davvero ridicola.
Eppure Dante ha paura; tanto che in due versi ripete due volte il verbo temere
Dante in questi due canti percorre la via della rappresentazione teatrale, della figurazione del teatro medievale o della sacra Rappresentazione, dove diavolicchi piccoli e neri correvano all’impazzata dal palco al proscenio, fino a giungere in mezzo alla gente circondati da fumi puzzolenti, che dovevano atterrire ma spesso facevano più divertire.
Questi piccoli diavoletti inferociti Dante porta sulla scena di Malebolge e ne raccoglie l’impeto. Edoardo Sanguineti sottolinea come la topografia della bolgia dei barattieri è trasformata in vera e propria scena a cui si arriva, quasi zoomando. “così di ponte in ponte, altro parlando che la mia Comedìa cantar non cura” un po’ come chi va ad assistere a una commedia.
La complessa letteratura visionaria sull’Inferno influì su Dante come sulle arti figurative; così per esempio alcuni dipinti d’epoca sono in realtà illustrazioni di tali visioni.
Nel teatro medievale il desiderio di colpire l’uditorio con costumi grotteschi può avere incoraggiato lo sviluppo del grottesco nell’arte. Vi erano costumi d’animali con corna, coda, zanne, zoccoli fessi e ali; costumi di mostri metà uomini e metà bestie; si usavano anche maschere, guanti con artigli e congegni per lanciare fumo dai volti dei demoni.
La tendenza verso la ridicolarizzazione di diavolo buffo cominciò a verificarsi nel teatro solo agli inizi del XII sec., sotto l’influsso del folklore e delle rappresentazioni popolari dei mimi, dei giocolieri e delle maschere. La funzione di un demonio faceto era quella di provocare un sollievo umoristico che, divertendo l’uditorio, lo rilassava e lo sollevava in vista dell’azione tragica che veniva dopo.
E bisogna tener presente che anche Dante proviene da una terribile visione, quella degli indovini stravolti fisicamente e va verso la visione del supplizio degli ipocriti. E proprio i demoni, che per la ragione paradossali che erano loro a suscitare la paura maggiore, erano le figure più efficaci nella loro comicità per raggiungere lo scopo. Essi erano di gran lunga più terrificanti di altre figure comiche e questo rendeva il loro addomesticamento e la loro sconfitta più di una semplice liberazione emotiva.
I diavoli di Dante vengono appunto sconfitti dalla superiore scaltrezza di Ciampolo. Non una sconfitta del male, da parte del bene, ma una sconfitta dell’uomo sul diavolo. E questo può aiutarci ad intendere anche in che senso vada il comico per Dante. Il lettore di Dante non viene spinto a immedesimarsi nei demoni e a ridere con loro, ma piuttosto a ridere di loro.
Che poi Dante abbia voluto fare una rappresentazione di queste bolge molto simile a quelle del teatro dell’epoca, ce lo dice lui stesso allorchè ci avverte che sta per farci “udir nuovo ludo”
Esistono vari livelli di comicità nelle rappresentazioni medievali in cui appaiono i demoni. Il più basso è la commedia dozzinale e senza garbo né grazia, in cui i demoni corrono qua e là sulla scena o in mezzo agli spettatori, strillando, urlando imprecazioni, lanciando peti, saltando, facendo gesti osceni.
Il secondo livello di comicità è la satira alquanto scollacciata riservata ai demoni più importanti.
Il terzo livello ha una satira del comportamento diabolico degli uomini.
Dunque Dante usa il comico con senso satirico, per bilanciare la drammaticità di tutta la cantica e, così, usa questo strumento tutto letterario per dissacrare, schernire, smontare, il male e il suo rappresentante.