La storia di Avanguardia Operaia appartiene a tutti noi, compreso chi, come me, all’epoca non c’era. Ci appartiene perché è la storia di una splendida sconfitta, dell’illusione e della disillusione di una generazione di ventenni che nel collettivo, nel tutto della politica e in una passione travolgente, e a tratti finanche eccessiva, aveva trovato la propria ragione di esistere. “Volevamo cambiare il mondo”, il bel saggio di Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli, racconta questa storia attraverso i ricordi e le emozioni di alcuni dei suoi protagonisti. Uno di questi è Vincenzo Vita, per me un secondo padre, il quale pone l’accento sul ruolo politico della cultura, rievocando la sua storia e, attraverso di essa, la vicenda dei suoi coetanei di sinistra. A differenza della triste stagione che stiamo vivendo, nonostante il terrorismo, la violenza e gli eccessi, la sinistra era più viva che mai, con i suoi sogni, le sue estati al mare, la lettura in tenda del Capitale e, soprattutto, dei Grundrisse di Marx, la speranza di un cambiamento radicale e sanamente utopistico e la follia di non rassegnarsi all’esistente ma di volerlo cambiare alla radice. Una splendida follia che spiega anche perché da noi il Sessantotto sia durato un decennio, costituendo la patria morale della generazione del boom, nata dai padri che avevano affrontato la Resistenza e risvegliata all’impegno civico dalla tragedia di piazza Fontana e dall’inizio della Strategia della tensione che tanti sogni avrebbe infranto.
Molti dei ragazzi di allora si sono persi, qualcuno ha cambiato versante politico, qualcuno è diventato davvero insopportabile. I pochi che hanno resistito, invece, sono fra le persone migliori che ci siano in questo Paese, e anche se i capelli sono ormai bianchi e le rughe ne segnano il volto, sono dei perdenti che non hanno ancora rinunciato alla lotta.
Il libro di Biorcio e Pucciarelli costituisce, dunque, un passaggio di testimone e un atto d’amore per la politica di cui si avvertiva il bisogno. Fra le sue pagine si trovano esistenze diverse, destini differenti, passioni mai sopite e la bellezza dei ricordi: una bellezza che desta quasi invidia a noi ventenni e trentenni figli di questo mondo digitale e sedicente post-ideologico, in cui in realtà regnano il denaro e il liberismo sfrenato, l’edonismo reaganiano, ormai ridicolo, e i miasmi degli anni del riflusso che continuano ad affiorare e a negare la vitalità di un decennio, i Settanta, che ha avuto innumerevoli limiti ma ha anche donato a una generazione il valore della comunità e la bellezza dello stare insieme.
Abbiamo riflettuto a lungo con Vincenzo, in pranzi, viaggi e molteplici occasioni, su come coniugare la magnifica rivolta della sua generazione con il risveglio della mia, ed è anche grazie a lui se ho compreso prima di altri cosa rappresentasse Bernie Sanders per i ventenni americani assetati d’amore per la politica e desiderosi di ascoltare un nonno che raccontava loro di quando marciava con il reverendo King e si commuoveva per le vittorie pugilistiche di Muhammad Ali e per le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan. Ho capito, anche grazie a Vincenzo, che esiste un filo rosso che lega la generazione del tutto della politica, la sua, a quella del ritorno della politica, la mia. Anche noi, a diciott’anni, siamo stati gettati nell’agone dall’esplosione di una bomba: non si trattava della Banca Nazionale dell’Agricoltura ma della Lehman Brothers e dei suoi scatoloni, del crollo di un’idea di mondo sbagliata e distruttiva e del progressivo sorgere di un’alternativa che ancora non ha trovato una rappresentanza politica adeguata ma esiste e dovrà costituire il motore della sinistra che verrà.
Leggere il saggio su Avanguardia Operaia, in questi amari giorni di lockdown, è dunque il miglior modo per prepararsi ad affrontare le sfide del futuro. Ci dicono, infatti, quelle pagine che, nonostante il dolore per la sconfitta che dura da quasi mezzo secolo, il crollo delle illusioni, il disincanto, la rabbia e i tanti, troppi compagni che non ce l’hanno fatta, chi ha resistito appare un po’ come i personaggi di Sepúlveda, quei ragazzi di Santiago che curarono ferite e difesero risate, persero la strada e la ritrovarono. Santiago, del resto, con la Moneda in fiamme, il mito di Allende buttato giù dal golpe militare di Pinochet e il sangue a fiumi che ne è seguito, è stato un altro spartiacque di quella generazione che ora ricorda, guardandosi dentro e rileggendo quegli anni con la malinconica dolcezza di una nostalgia che si trasmette pagina dopo pagina, fino a comporre il quadro di una nuova speranza. Nessuno come quella generazione, nella sua parte non avvelenata dalla brama di potere, ha saputo comprendere il desiderio di vita della mia. Nessuno come loro ci ha preso per mano. Nessuno come loro ci ha insegnato qualcosa e trasmesso il desiderio di camminare insieme, riscoprendo la comunità dopo l’esaltazione acritica dell’egoismo e dell’individualismo che tanti danni ha arrecato all’umanità.
Loro hanno perso ma, forse, hanno vinto la sfida più importante: quella che si compie ogni mattina davanti allo specchio. E, soprattutto, hanno fornito a noi la possibilità di credere ancora in qualcosa, il che, nella stagione dell’abisso, vale persino qualche lacrima di troppo. I loro giorni valevano anni, i nostri forse secoli. In ogni caso, qualcosa resterà.
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