355 imputati, tutti accusati di appartenenza al crimine organizzato, ‘ndranghetista. E’ il maxi processo Rinascita Scott, di cui però si parla soprattutto perché se ne parlerebbe troppo poco. Qual è il punto? Quando imputati di crimini tanto odiosi quanto gravi e diffusissimi arrivano a giudizio, per essere certi che vincano le istituzioni dobbiamo partire dal più semplice che è poi l’indispensabile, cioè dal due più due: cioè che il cardine della legalità istituzionale è che le prove, a carico o assolutorie di chiunque, si formano in giudizio, non durante le indagini. Allora cosa c’è che non va? Non va che quando il maxi processo arriva in porto e le prove si cominciano a costruire nel confronto tra le parti noi non abbiamo la diretta. Perché se è vero che la prova si forma nel dibattimento la notizia più importante è quella e poterne seguire la formazione è importante per tutti. Se invece ritenessimo che le prove già ci siano, siano state ottenute durante le indagini, cadremmo nell’eccezionalismo di ritenere un processo concluso prima ancora di cominciare. Allora, da non esperto, mi ricordo che il processo si fonda su questo criterio: il magistrato giudicante deve arrivare “intonso” al processo, senza preconcetti o verità variamente assimilate o assunte. Il suo essere “fuori” lo rende garante di “terzietà”. Ecco perché parlarne per me dovrebbe voler dire avere la diretta, che non c’è: come porvi rimedio?
Parlando in generale trovo un bene il fatto che il pubblico ministero di questo processo parli spesso agli italiani; dovrebbe essere parte di un confronto su problematiche gravi e opinioni importanti, non su elementi d’accusa o di difesa, questo potrebbe apparire un processo fuori dal processo. Così sentire accusa o difesa avrebbe senso per conoscere il contesto e ricordarci comunque che il mondo cui alluse l’ex ministro di grazia e giustizia Bonafede, che ho sentito dire che in prigione non ci sono innocenti ma solo colpevoli, è molto strano, un mondo che non conosco, come hanno dimostrato tante storie, ad esempio quella di Sacco e Vanzetti.
Ma non penso a dei nuovi Sacco e Vanzetti, no: penso che presi nel vortice di una lotta certamente impari e decisiva, con una diretta avremmo modo di sviluppare confronti e riflettere, magari su emergenze connesse o su risultati conseguiti nel silenzio. Elementi che uniti ci farebbero capire. Privati della diretta rischiamo di diventare orecchianti.
Gli ostacoli al cammino della giustizia li immaginiamo tutti, essendo italiani, ma dobbiamo trovare il modo per crescere e più che idee ci servono cammini di verità e quindi la cronaca oltre che bianca e nera deve entrare nei grigi, e nulla lo fa meglio di una diretta processuale. D’altronde, se già si sapesse tutto a cosa servirebbe il processo?
Concludo allora spiegando il motivo del mio cruccio per la mancanza di diretta ricordando la lezione di Leonardo Sciascia che mi ispira nel sentirmi, come tanti che la pensano come e anche diversamente da me, avversario della mafia. Per Sciascia, lo ricordiamo tutti, il caso Mori e il suo contrasto alla mafia, indiscutibile ai tempi del fascismo, aveva un senso: il contrasto di Mori alla mafia, condotto con strumenti eccezionali e senza alcuno scrupolo, salutato dall’opinione pubblica con straordinario favore, servì all’ala conservatrice del partito per conquistare definitivamente la supremazia nel partito e imprimere la sua forma sul regime. Quella lezione non fissa certo paragoni, ma ci dice sempre che la vera sconfitta della mafia è la vittoria delle istituzioni e della nostra coscienza democratica. Per questo mi rammarico che in assenza di diretta io non possa seguire il processo come seguii la deposizione di Buscetta. Ascoltarlo per me contò molto. E credo che allora molti convennero. Quella diretta fu in sé una vittoria della democrazia.