C’è un’immagine che rende meglio di ogni altra l’idea di chi sia stato Umberto Eco (scomparso il 19 febbraio 2016 all’età di ottantaquattro anni): il semiologo alessandrino a passeggio nella sua sconfinata libreria, mentre osserva con orgoglio gli scaffali invasi da una quantità monumentale di volumi e si immerge, letteralmente, nel suo magnifico universo di carta. Eppure non li aveva letti tutti, in quanto teorizzava di comprare più libri di quanti ne avrebbe mai potuti leggere perché quei volumi stavano lì a ricordargli tutto ciò che non sapeva. Eco, del resto, a partire da questa sua interpretazione in chiave moderna del pensiero di Socrate, incarnava l’umiltà dei grandi, lo spessore di chi sa di non sapere pur sapendo moltissimo, la levatura morale di una personalità fuori dal comune, autore di capolavori come “Il nome della rosa” e “Baudolino”, curatore de “La bustina di Minerva” sull’Espresso e, infine, tra i fondatori de La nave di Teseo, la casa editrice cui ha dato vita insieme a Furio Colombo, Elisabetta Sgarbi e altri giganti per opporsi alla scelta di Mondadori e Rizzoli di fondersi, dando vita a una concentrazione editoriale che a suo giudizio, e non certo a torto, comprimeva la diffusione di idee, rendendo di conseguenza più asfittico il nostro panorama letterario.
Dal Gruppo ’63 agli studi di semiotica, senza dimenticare l’impegno universitario, i romanzi entrati nell’immaginario collettivo, le polemiche condotte con l’inconfondibile buon gusto di un piemontese eclettico e sempre pronto alla battuta e le sferzate in punta di fioretto a una politica che negli ultimi anni è diventata davvero deprimente: la vita di Eco è stata un caleidoscopio di esperienze, ricchissima di incontri, all’insegna della massima libertà, della passione per il prossimo, di uno studio intenso ma mai “matto e disperato”, scandita dalla costante ricerca della levità, di una spensieratezza che poco si addice, di solito, a personalità come la sua ma che in lui e nella sua scanzonata meraviglia trovava la propria sublimazione.
Cinque anni senza Eco si fanno sentire. Molte cose sono cambiate da allora, quasi tutte in peggio, anche nel contesto universitario e culturale di un Paese sempre più chiuso, sempre più asfittico, sempre più in guerra con se stesso, nel quale sono pochi ormai gli intellettuali capaci di svolgere il ruolo di coscienze critiche mentre tanti, troppi non perdono occasione per asservirsi al potente di turno.
Umberto Eco era un irregolare di natura, un combattente gentile mai prono al potere, sempre pronto, al contrario, a evidenziarne limiti e vizi. Era un ribelle, un pensatore che ricordava, in una certa misura, un chierico vagante, un fuori dal coro, sempre disallineato, spesso destinato a remare in direzione ostinata e contraria, con una penna feroce ma, al tempo stesso, dolce, calviniana, puntuta ma mai volgare, sferzante ma, al contempo, ricca di quel genio che costringeva persino i più acerrimi nemici ad ammirarlo e, in fondo, a volergli bene.
Ci manca per tanti motivi, ora he navighiamo a vista, nel buio di una stagione in cui davvero del doman non v’è certezza e c’è ben poco da essere lieti.
Umberto Eco ci ha reso migliori. Sono pochi i protagonisti di qualsiasi ambito di cui si possa dire lo stesso.
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