MasterChef è una cosa seria, anche le critiche a MasterChef lo sono. E’ in pieno svolgimento sugli schermi di Sky l’edizione tricolore del format di successo internazionale.
E’ un programma oltre che tecnicamente ben fatto, sul piano dei contenuti quasi perfetto: ci parla di cucina (che noi italiani amiamo), ci parla di un settore chiave della nostra economia e della nostra identità nazionale, crea una trama di personaggi che si sfidano non solo sulle piastre ad induzione ma anche a livello caratteriale e di personalità, è condotto da tre chef di grande bravura e simpatia.
Purtroppo però la tv, anche quella dell’intrattenimento puro e senza controversie, non è solo divertimento. Ha anche un valore pedagogico, didattico, può incidere sui comportamenti delle persone, sugli orientamenti dell’opinione pubblica.
Salvo il timido messaggio finale letto dal poco convinto vocione di chef Cannavacciulo che ci invita a non sprecare il cibo, questo suo ruolo “pedagogico” MasterChef l’ha preso un po’ sotto gamba se non ci ha del tutto rinunciato.
Fedeli al bisogno di adrenalina e alla sua sollecitazione, gli autori del programma continuano a conteggiare nei tempi di gara gli spostamenti dai banchi di lavoro alla dispensa e viceversa. “Sciocchezze”, “dettagli” dirà qualcuno pronto a tirar fuori il politicamente corretto.
No, non sono sciocchezze se hai una disabilità motoria e se percorri in 5 minuti la stessa distanza che gli altri concorrenti fanno in 30 secondi. La tua disabilità – usando il linguaggio dell’equitazione – in quel momento diventa handicap, sei penalizzato perchè cominci a cucinare molto dopo (5 minuti su 45 di gara è più del 10% nel nostro esempio) rispetto agli altri. Il tutto condito dai continui richiami a “volare in balconata”, a “correre a mettersi il grembiule”, sicuramente bonari nelle intenzioni degli chef ma devastanti nell’effetto verso una precisa fetta di popolazione. I disabili motori vengono, come al solito, pubblicamente esclusi e anzi (tacitamente) classificati come inabili a quel contesto. Di nuovo indesiderati, come sempre invisibili.
Tra l’altro – cari autori di Master Chef – si tratta di un linguaggio e di una dinamica di gara superflui ed eliminabili perchè – diamine per dirla con Barbieri – nelle cucine soffri fisicamente per stai in piedi, non per gli scatti da centometrista; per i movimenti da mattonella a mattonella, inchiodato allo stesso banco, mica per la corsa ad ostacoli per di più in spazi angusti e affollati, con utensili roventi in giro.
In generale l’idea di diversità, di inclusione della diversità, di MasterChef è lodevole quanto furba. E’ sostanzialmente basata sulla diversità etnica e regionale: c’è la concorrente di origine cinese, quella abruzzese, c’è il figlio di emigranti marocchini come er’ romano de Roma, l’intellettuale americano e la madre di famiglia dell’est Europa ma anche il domenicano di colore di fianco alle sicule doc. Insomma non è il quadro di un’Italia (e di una cucina italiana) monocolore, ed è lodevole ma è anche una scelta furba, funzionale all’internazionalizzazione del programma, quanto dalle grandi ricadute pratiche; è una diversità che si proietta direttamente sui piatti cioè sui protagonisti del programma perchè poi nelle creazioni dei singoli concorrenti finisco non solo gli ingredienti (spesso uguali per tutti) ma le loro storie, le loro terre di origine, i loro ricordi da Caltanissetta a Santo Domingo. Furbata o meno non è questo il punto, chiaramente non basta.
Sarebbe ora che gli autori di Master Chef, l’editore seppure in subappalto internazionale come capita per i format, e gli chef (che più di tutti ci mettono la faccia) ragionassero su come non accontentarsi, su come invece ritoccare logica e linguaggio, su come restituire dignità a tutti tra gli spettatori e tra i potenziali concorrenti.
La stagione di MasterChef che sta andando in onda ora, mi risulta sia registrata ma i protagonisti hanno tanti modi per rispondere alla nostra riflessione e per aprire un dibattito su come cambiare in meglio la tv e quindi la nostra società. Da pessimista temo che preferiranno ignorare questa sollecitazione. Del resto il format è internazionale ma siamo pur sempre in Italia.
PS: sono un inviato speciale della Rai, copro crisi e conflitti dimenticati. Perchè mi occupo di questo argomento? Perchè – pur senza farne una questione pubblica – faccio i conti con un’importante disabilità che pur non mi ha mai impedito di fare il mio lavoro. Anche per questo, se permettete, un po’ mi girano quando vedo il saper cucinare confuso con l’atletica leggere. A me hanno insegnato che il risotto al salto non fosse una specialità olimpica.
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