Che cos’è la memoria? Perché abbiamo bisogno di alimentarla? Che cos’è il ricordo? A chi appartiene?
Memoria e Ricordo sono parole simili eppure diverse. La stessa etimologia ci guida nel cogliere la differenza: “memoria”, dal greco ‘mimnésco”, indica un’attività della mente, la facoltà di mantenere in vita i contenuti del passato. Ricordo deriva invece dal latino “re-cordor” e significa “richiamare al cuore”: è quindi un termine legato più ai sentimenti che alla ragione, ed è decisamente più individualistico e più soggettivo; come a dire che la memoria è più corale e sociale, mentre il ricordo è personale.
E’ per questa ragione che la comunità internazionale da anni ormai, ha sentito il bisogno di mantenere accesa la memoria collettiva sui terribili eventi della shoah – istituendo La Giornata della Memoria – e far confluire ogni singolo ricordo nel grande bacino storico-testimoniale da consegnare alle generazioni presenti e future.
Nel mondo classico la madre delle muse è proprio la Musa della Memoria, Mnemosyne, probabilmente in quanto le arti hanno il compito di preservare la bellezza nel tempo, ed è proprio all’arte, oltre che alla formazione-informazione, che va affidato il compito di fare appello a tutti gli strumenti intellettuali ed emozionali per ricordare sempre, anche laddove non si può comprendere.
Lo sa bene la compagnia dei Teatri d’imbarco, che, con il patrocinio della Comunità Ebraica di Firenze, ha messo in scena e ha mandato in streaming, lo spettacolo C’era una volta il ghetto. I giorni dell’Insurrezione del Ghetto di Varsavia con Beatrice Visibelli e la Balagan Cafè Orkestar diretta da Enrico Fink , spettacolo tratto dall’ opera di Marek Edelman, con l’adattamento e la regia Nicola Zavagli.
Molte volte gli storici del Novecento si sono chiesti come mai gli ebrei d’Europa non si ribellarono alle prime confische, alle prime persecuzioni, alle prime deportazioni. Come mai milioni di ebrei in tutto il continente non seppero creare un’organizzazione capillare per armarsi e insorgere contro i nazisti e il progetto di annientamento di un intero popolo? Non accadde a Berlino, non accadde in tutta la Germania, non accadde in Italia, non accadde in nessuna nazione occupata dai nazisti. Accadde soltanto nel ghetto di Varsavia tra la fine del ’42 e il ’43. Soltanto a Varsavia gli ebrei segregati nel ghetto idearono e organizzarono una rivolta armata contro le truppe dell’esercito tedesco.
Questo evento storico è stato reso noto anche grazie al cinema, dal capolavoro assoluto di Roman Polanski, del 2002, Il Pianista.
Quest’anno, in occasione della ricorrenza della Giornata della Memoria, il giorno 27 gennaio, a Firenze, nella sede del Teatro delle Spiagge, mentre i teatri sono ancora tristemente chiusi, la Compagnia che ha messo in piedi un intero cartellone dedicato ai diritti umani (abbiamo già visto La mite, tratto da un racconto di Dostoevskij, in occasione della giornata contro i femminicidi), ha scelto di raccontare quella pagina di storia, quel momento in cui duecento ragazzi e ragazze, nel ghetto di Varsavia hanno combattuto fino alla morte anziché arrendersi passivamente e lasciarsi fucilare o infilare in un vagone merci con destinazione una fine tanto sicura quanto orrenda.
La celebrazione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio, non è una ricorrenza ebraica; quella data ha un valore per la società civile. Le comunità ebraiche hanno un altro giorno simbolo per ricordare la shoah, proprio il giorno della battaglia nel ghetto di Varsavia, perché quello fu il momento della ribellione, del moto di orgoglio, della fierezza.
Il testo portato in scena sotto forma di recital, è stato scritto da Marek Edelman, che di quella rivolta fu il vicecomandante, uno dei pochissimi sopravvissuti, fuggito attraverso i tunnel delle fognature di Varsavia dopo che le SS fecero saltare in aria tutti gli edifici del ghetto, dove i ribelli si erano asserragliati, e fecero saltare la stessa sinagoga.
Il racconto è affidato alla passione di Beatrice Visibelli che legge accoratamente il lungo testo che ripercorre tutte le tappe di quello che lei stessa ha definito “un duro viaggio narrativo”. La sua voce è accompagnata dall’esecuzione musicale della Balagan Cafè Orkestar diretta da Enrico Fink che, in scena insieme all’attrice, sul piccolo palco allestito con una semplice, ma efficace scenografia (poche valigie accatastate, libri sparsi, fotografie d’epoca), suona una melodia della tradizione klezmer in un’originale partitura.
La voce narrante, secondo la tecnica del teatro di narrazione (in alcuni passaggi la Visibelli ci ha ricordato l’inflessione tragica di Laura Curino), costruisce il filo degli eventi che si legano, segmento dopo segmento; è seguita, accompagnata, anticipata dal suono del violoncello prima, poi del clarino e poi degli altri strumenti. Via via la musica si fa incalzante, si avvolge a spirale attorno alla drammaticità dei fatti raccontati.
Scorrono immagini su un video alle spalle dei musicisti, con elaborazioni visive del grande fotografo Roman Vishniac, che negli anni Trenta aveva documentato la vita nei quartieri ebraici.
Quando il racconto procede, nella sua prima fase, sullo sconvolgimento della vita degli ebrei, e la narrazione si sofferma sulla enumerazione e sulla successione delle proibizioni, dei divieti, dei regolamenti, delle privazioni imposte nel ghetto, la musica sottolinea la voce, la voce si appoggia alla musica. Così, via via, per tutto il racconto fino ad ottenere un ephos emozionale molto forte.
Apprendiamo così che la fame fu, all’inizio, il nemico principale contro cui combattere, che nel ghetto furono rinchiusi dapprima 300 000 ebrei polacchi, ai quali si aggiunsero poi prigionieri ucraini e di altre nazioni, che nel settembre del ’42 furono deportati 60 000 ebrei, che a un certo punto, si decise per la ribellione e la rivolta. Alla fine del 1942 nel ghetto arrivarono pochi mitragliatori e poi alcune bombe a mano; cominciava così il primo atto di resistenza armata contro i nazisti, una vera guerra partigiana che si basava sulla fede che “sempre e comunque si può e si deve resistere ai tedeschi”. Per la prima volta si dissolve l’aura del tedesco onnipotente. Così, arrivarono nel ghetto rifornimenti di armi e si organizzò una guerriglia fatta di resistenza e attacchi; gli ebrei uccisero decine e decine di soldati tedeschi, un carro armato venne fatto esplodere. La prima battaglia durò sette ore. Tre ufficiali tedeschi tentarono di negoziare la tregua ma vennero fucilati dai cecchini nascosti nei palazzi. A quel punto i tedeschi misero in campo tutte le più terribili strategie di attacco usate in guerra, colpirono casa per casa e con l’ausilio degli spitfire incendiarono ogni edificio con tutti gli abitanti dentro. Fecero esplodere la Sinagoga, usarono le bombe a gas per i condotti fognari.
Non avevano speranza gli ebrei del ghetto di Varsavia, lo sapevano bene. Ma resistettero, si opposero alla barbarie incomprensibile, a quella idea che una “psiche normale non può comprendere”, che si potesse assassinare un uomo solo per il colore della pelle, l’origine, la religione praticata, la tendenza sessuale.
Questo spettacolo è un grido che mette assieme la memoria dell’ingiustizia e quella della volontà di ribellione. Questo grido, nella voce di Beatrice Visibelli, si fa via via sempre più assordante, sempre più acuto e tragico. Forse, in qualche passaggio, si sarebbe dovuto un po’ attenuare per raggiungere un timbro profondo, scuro, più meditato; avrebbe fatto vibrare corde più intime, forse. Si è preferita l’enfasi più concitata ed estrema, certamente per far sentire questa storia mostruosa, per incidere un ricordo che deve restare indelebile: “Noi, i salvati, lasciamo a voi il compito di non lasciare morire la loro memoria”.