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‘L’ultimo paradiso’: una storia inesorabile tra lotta di classe e amore, su Netflix

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Su Netflix, dal 5 febbraio, un film drammatico, co-prodotto da Riccardo Scamarcio che ne ha curato, col regista Rocco Ricciardulli, la sceneggiatura e ne è protagonista.

Insieme a lui nel film Gaia Bermani Amaral, Valentina Cervi, Antonio Gerardi, Valentina Torchetti, Anna Maria De Luca, Lucia Zotti, Nicoletta Carbonara, Donato Placido, Mimmo Mignemi.

La vicenda è tratta da una storia vera, una delle tante, avvenuta nelle terre di Puglia, alla fine degli anni Cinquanta, dove i contadini sono vessati da un caporalato spietato e da una mentalità retrograda e patriarcale.

In questo contesto Ciccio Paradiso intraprende una lotta personale e coraggiosa contro i “padroni” delle terre che guadagnano sfruttando la dura fatica dei contadini e abusando delle ragazze che lavorano a giornata. Ma Ciccio Paradiso, pur essendo sposato, ama sedurre le donne, anche quelle degli altri, e fatalmente, si innamora della figlia del suo peggior nemico, il caporale del paese.

Da qui, in un intreccio dal sapore verista ma anche pirandelliano (Ciccio Paradiso ricorda molto la figura di Liolà), le conseguenze, inevitabili, avranno un risvolto tragico. L’onta passionale, il disonore della ragazza, Bianca, sarà l’occasione, l’alibi per eliminare il sobillatore, la testa calda, e fargli fare la fine che meritano gli uomini che “disturbano” le donne sposate. Esporlo con i segni della morte violenta e della mutilazione degli organi genitali sarà il marchio inequivocabile del destino che egli stesso si era cercato.

Fin qui la successione degli eventi appare prevedibile, per quanto ber costruita e avvincente. Ma da questo momento la vicenda si arricchisce di elementi nuovi, la sceneggiatura orchestra diversi passaggi narrativi che negano un esito scontato. Perché Ciccio Paradiso aveva un fratello, un gemello partito giovanissimo verso il Nord, che in quegli anni fu un immenso bacino di accoglienza di manodopera dal Sud, e mai più tornato, Antonio.

Raggiunto dalla notizia della tragedia, Antonio torna nella sua terra, assiste al funerale, si rivolge ai carabinieri per avere notizie sulle indagini. Ma caporalato al Sud, negli anni Cinquanta, significava anche agganci con i poteri locali, connivenze, ingiustizie; i Carabinieri avevano arrestato i mariti sospettati dell’uccisione che tutti considerano un delitto passionale, quello che al Sud si chiama “serrata di corna”. Il vero responsabile non viene toccato, il movente vero non viene sollevato.

L’intervento di Antonio nel paese, la sua decisione di restare, la sua storia parallela, segnerà un risvolto sorprendente; lui che vive e lavora a Nord, si sente ormai un settentrionale (integrato, fidanzato, in carriera nella fabbrica di Trieste), ricorda, però, di essere nato in questa terra, una terra di sudore e sangue, perché “ci vuole culo pure a nascere”.

C’è una suggestione fortemente pirandelliana nella storia, l’intervento del caso e poi l’inesorabilità, gli schemi fissi della famiglia patriarcale e del paese ma poi alcune soluzioni, in parte paradossali, come quando le donne che avevano amato Ciccio decidono tutte insieme, la moglie per prima, di portare sulle spalle la bara fino alla chiesa, al posto degli uomini, come a voler fare corpo unico in un dolore unico.

Il regista, Rocco Ricciardulli, ha ricavato la sceneggiatura da una sua precedente pièce teatrale e ha collaborato anche alla colonna sonora, realizzata dal fratello Pasquale, ed effettivamente la pellicola ha una costruzione teatrale, un’attenzione precisa per i dettagli, per i dialoghi, per ogni piccolo gesto. La tecnica di ripresa, sortisce, a volte, un effetto straniante, anche nelle scene di violenza che vengono riprese dall’alto o da un punto di vista filtrato -il parabrezza di una vecchia FIAT 600, per esempio- ma, più spesso, coinvolge nell’aspetto più romantico, nell’amore dolce e passionale, nel gioco erotico, nella leggerezza degli sguardi fra gli innamorati. Si serve di una fotografia, di Gianfilippo Corticelli, che pennella le scene, alcune con citazioni pittoriche facilmente identificabili (La deposizione di Mantegna, I Mangiatori di patate di Van Gogh…),  altre illuminandole con effetti di luce abbaglianti come la campagna pugliese con le sue distese a perdita d’occhio interrotte dai filari di ulivi e i muretti a secco, dove i colori si sposano con la narrazione.

Riccardo Scamarcio ha creduto a questo film tanto, da quando il regista lo raggiunse a Polignano per proporgli il soggetto; lo ha riscritto insieme a lui e ha dato un’interpretazione tanto intensa e convincente quanto sfaccettata. Interpreta entrambi i ruoli dei  fratelli che non si incontrano mai, gemelli identici ma totalmente diversi che, sul finale si identificano, si riuniscono, si riscoprono. Tanto sanguigno, caloroso, passionale, appassionato Ciccio, quanto razionale, controllato, austero Antonio; l’attore pugliese ha saputo dare volto e fisico ad entrambi con grande maestria.

Fra le attrici ci è sembrata più convincente Valentina Cervi nel ruolo della moglie che Gaia Bermani Amaral nel ruolo di Bianca, l’amante giovane e innamorata.

I passaggi più delicati dell’amore tra Ciccio e Bianca sono sottolineati da una canzone francese celeberrima degli anni QuarantaQue reste-t-il de nos amours di Charles Trenet, un pezzo che regala alla storia un velo di romanticismo, sogno e poesia. Sembra evidente che l’aspetto personale, sentimentale, intimo prevalga sull’indagine sociale o storica, poco approfondita anche se evidente.

Così, alla fine si svela che L’Ultimo Paradiso, non è la terra di Puglia, non è Ciccio, non è Antonio; è, forse, una condizione dell’animo inseguita (per la quale Ciccio ha lottato), agognata, endemica alle proprie radici.


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