Le affermazioni di chi riduce la portata della Shoah sono un segnale brutto. Claudio Vercelli: «La democrazia ci impone di gestire la divisione insuperabile tra le vittime e i carnefici»
Il quotidiano La Repubblica informava qualche giorno fa che il sito istituzionale di San Francesco al Campo, piccolo Comune del Torinese, ha pubblicato posizioni negazioniste sulla Shoah. Al di là di questo singolo e grave evento, a Claudio Vercelli, docente di Storia dell’Europa contemporanea all’Università di Torino e di Storia dell’ebraismo all’Università Cattolica di Milano, abbiamo chiesto che cosa stia accadendo, tra rigurgiti xenofobi, violenze, aggressioni antisemite, zoom bombing diretti a rappresentanti delle comunità ebraiche e “saluti romani” in sedi istituzionali.
«Il comunicato stampa diffuso dalla municipalità di San Francesco al Campo per il Giorno della Memoria non ha contenuti strettamente negazionisti bensì riduzionisti. In altre parole, non nega l’evidenza dello sterminio ma introduce, con un argomentare al medesimo tempo capzioso e cavilloso, una lettura sospettosa dei trascorsi storici. Quasi ne intendesse avvalorare una lettura per l’appunto riduttiva: qualcosa del tipo “mai si saprà se veramente fu una tragedia spartiacque”. Ciò che sta al nocciolo dell’argomentare riduzionista, e in immediato riflesso anche di quello negazionista, non è mai il cancellare un passato bensì il rimodellarlo sulla base delle proprie esigenze. Qualcosa, del tipo: “avvennero fatti straordinari ma di essi non ci rimane alcun insegnamento civile e morale. Poiché la storia è solo una collezione di tragedie”, e nessuna è “più importante” di altre. Equivalendosi. Il riduzionismo, che il sindaco di San Francesco al Campo fa suo, scorre su questa linea di senso comune. Francamente, non è meno rischioso dei negazionismi propriamente intesi».
Nel comunicato diffuso dall’amministrazione di San Francesco al Campo il 27 gennaio (Giorno della Memoria) si sosteneva che la persecuzione e la morte di 6 milioni di persone di religione ebraica per mano nazi-fascista fosse in realtà «un fatto riportato dalle tesi storiche tradizionaliste dominanti» e che le attuali leggi che vietano l’apologia del fascismo siano «una singolare eccezione alla libertà di parola e di stampa». Come rispondere ad affermazioni di questo tipo?
«È una contraffazione a tutti gli effetti. Al netto delle successive precisazioni, smentite, prese di distanza (quasi da sé medesimi). Tra atteggiamenti “luogocomunisti” (accarezzare e istigare il pregiudizio di senso comune) e falsa anticonvenzionalità, quella che deriva dalla finta denuncia di una “verità ufficiale”, che sarebbe espressa dai “poteri forti”, dai media mainstream e così via. Non si tratta, beninteso, di contraddizioni. E neanche di confusioni o fraintendimenti. Il sindaco, ovvero quei suoi eventuali collaboratori che hanno redatto il testo del comunicato stampa da lui poi condiviso, sanno benissimo di che cosa vanno parlando. Non c’è bisogno di essere storici o comunque ricercatori in storia per cogliere il senso del passato e, con esso, delle sue trasposizioni. Nonché delle sue manipolazioni. Ciò che traspare da quelle parole è quindi sufficientemente chiaro, anche sulla scorta dei medesimi incisi (un successivo comunicato sulle pagine del sito del Comune e poi, dopo avere cancellato la dichiarazione e le cosiddette precisazioni, l’affannoso rincorrersi di interviste e interventi di merito): si vuole instillare la convinzione che i fatti, e le loro interpretazioni, siano il prodotto di una “versione ufficiale”, come tale non solo legittimamente riscontrabile ma, soprattutto, opinabile in linea di principio. Poiché si tratterebbe di “verità ufficiale” e, come tale, denunciabile per la sua presunta inattendibilità. A beneficio perlopiù di una platea di astanti scettici se non sospettosi, quindi composta essenzialmente da antidemocratici, ossia da estranei alla democrazia. Che mai l’hanno digerita per davvero, dal 1945 a oggi. In altre parole: il complotto dei vincitori, di cui i “vinti” del passato vanno blaterando da sempre. È esattamente questo lo spazio delle vecchie e nuove destre radicali. Che non si alimentano solo delle posizioni più esasperate ma di uno smottamento nel senso comune. Quello che, fingendo di fare una critica allo stato delle cose esistenti, in realtà si nasconde in tale modo dietro alla polemica per portare invece avanti le vecchie tesi antipluraliste, complottiste e sostanzialmente indisposte verso la dialettica pubblica. Che denunciano come menzognera e falsificata».
Nel testo si avvalorano poi le tante, troppe, e ormai diffuse teorie revisioniste facilmente raggiungibili anche nella rete web…: quanto gioca il fattore ignoranza e, sul web, il sistema legato agli algoritmi che accomuna persone che condividono gli stessi pensieri e consumi?
«Non credo che si possa parlare, in senso stretto, di ignoranza. Chi nega – ma anche rimuove, riduce, ridimensiona, rifacendosi quindi alla trivializzazione e alla banalizzazione dei tempi trascorsi – non è propriamente un individuo che non sappia del passato in quanto tale. Semmai è un soggetto che di ciò che è stato si è fatto una precisa idea: ovvero che lo sterminio non è mai accaduto e che il suo richiamarlo alla coscienza civile è quindi il prodotto, al medesimo tempo, di una deliberata menzogna così come di una manipolazione di cui beneficerebbe i presunti burattinai. Chiunque essi siano. Mai sottovalutare il potere del fake, tanto più in un’epoca di virtualità, dove il tempo (e con esso i fatti che lo accompagnano) sembra quindi diventare una variabile dipendente da versioni equivalenti. La vera silloge di questa epoca, in fondo, è un relativismo assoluto, dove tutto sembra essere intercambiabile, a seconda dei gusti del momento e degli interessi occasionali. Quindi, lo ripeto, la questione non è mai l’ignoranza bensì l’incapacità di fare propria quell’etica della reciprocità senza quale non c’è nessun senso della responsabilità così come dell’emancipazione. Presente e a venire».
Come siamo arrivati a questo punto? Come riconquistare quel senso comune di responsabilità, di comprensione, di empatia, di rispetto umano, che preziosamente e faticosamente siamo riusciti a interiorizzare grazie alle testimonianze dirette, ai documenti, alla memoria condivisa di chi c’era?
«La questione è incredibilmente complessa. Il richiamo ai temi evocati dal Giorno della Memoria non è mai isolabile dal più ampio repertorio delle questioni che rimandano, piuttosto che a un generico galateo delle convenzioni di circostanza, semmai a un robusto sistema delle convinzioni democratiche. Poiché è quest’ultimo il vero fuoco su cui concentrare le nostre riflessioni. Per intenderci: qualsiasi rinvio alle politiche pubbliche (ovvero al campo degli interessi collettivi, alla loro negoziazione e sintesi) non può ridursi al semplice richiamo a una sorta di postura che evochi i “buoni sentimenti”. La democrazia non si sorregge su di essi bensì sulla consapevolezza che libertà e giustizia proprie riposano, inesorabilmente, sul rispetto degli spazi di autonomia altrui. E viceversa. In una età quale quella che stiamo vivendo, dove invece domina una sorta di idolatria dell’ego narcisista, la comprensione degli “altri da noi” (e con loro, quindi, di noi medesimi, ovvero di quanto si rispecchia in essi) è annichilita. Va da sé che, in tale modo, le premesse di quel rispetto reciproco – ripeto: non un decalogo stanco e inflazionato bensì un impegno in progress, basato sul tempo presente e sul desiderio di quello a venire – rischi di venire annientato. Non esiste alcuna ricetta precostituita, applicata la quale si otterrebbero chissà quali risultati. Oggi la coesione sociale è senz’altro messa a rischio sia dai processi di globalizzazione che dall’incapacità delle democrazie sociali di dare una risposta credibile agli effetti che essi producono su società nazionali che si sentono assediati ed espropriate. In buona sostanza, si riparte da questo riscontro e non da altro. Il problema di fondo rimane lo spazio della politica rispetto all’ipertrofia di una economia che si presenta come “religione” laica dei tempi correnti».
Come educare le giovani generazioni in tema di Memoria?
«Va da sé che non esista un unico metodo né un criterio efficace a prescindere per tutti. Da sempre vado sostenendo che la memoria sia un atto politico. Ossia, che implichi il prendere parte, in maniera spesso anche partigiana. Chi prende parte, a ben pensarci, non è mai un “tutto” ma una parte medesima. In quanto la democrazia non è mai totalitarismo ma somma dialettica delle diverse parti: individui, pensieri, identità e così via. Poiché gli interessi sono spesso conflittuali. Ovvero, non coincidenti. È democrazia non ciò che nega questo stato delle cose bensì il terreno sul quale si misurano le successive mediazioni. A tale riguardo, non esiste quindi alcuna memoria condivisa come, invece, molti altri vanno sostenendo, in una sorta di delirio del vaniloquio. Le memorie ci consegnano il senso della divisione insuperabile: quella che intercorre tra carnefici e vittime, tra vincitori e vinti, tra padroni e servi e così via. Non c’è nulla di cui sconcertarci. Non esiste un’omogeneità a prescindere bensì un conflitto permanente – del quale ciò che appelliamo con il nome di “memoria” è parte integrante – da mediare per l’appunto attraverso gli strumenti della democrazia rappresentativa e partecipativa. Il senso della Costituzione della Repubblica italiana è esattamente questo: costruire e rigenerare permanentemente un sistema pluralista dove il punto di sintesi è costituito da percorsi di sintesi. I quali non cancellano le identità bensì offrono ad esse un codice – le norme – che va condiviso. Pena la decadenza della coesione sociale. Senza un accordo sulle norme, che incorporano in sé il sistema etico che chiamiamo con il nome di “valori”, non c’è infatti alcun futuro».
Come affrontare invece e nel modo migliore le persone (gli adulti) che ostinatamente e ostentatamente sembrano non voler guardare la realtà di ciò è stato e coloro che invece soffiano sul fuoco, che si nutrono e diffondono violenze e odio? Anche nella politica.
«Il vero problema, oggi, non è solo quello di una pedagogia civile bensì del declino degli istituti della democrazia rappresentativa, quella al medesimo tempo sociale e liberale. Il vero fuoco della riflessione, quindi, deve muoversi in tale senso. Ossia, non deve interrogarsi su ciò che già mancherebbe ma su quanto potrebbe mancare di qui in avanti. Lo spazio dei radicalismi antidemocratici, della loro feroce distruttività nel nome dei fondamentalismi, degli identitarismi, dei sovranismi, si colloca in questo preciso ambito. Nessun costrutto antipluralista, illiberale e liberticida vale da sé. Semmai abbisogna del declino della comunità inclusiva. È questo, a ben guardare, il lascito delle crisi del secolo scorso. Tanto più stringente dal momento che la storia non si ripete mai ma, al medesimo, tempo, esprime calchi e lunghe durate – a partire da diffuse mentalità – che si confermano anche in epoche tra di loro diverse. Soprattutto se esse ci parlano di crisi e trapassi, così come sta avvenendo oggi».
Foto di Ricardo_ha77, il cancello di Auschwitz
Fonte: Riforma.it