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La militanza per i diritti civili e contro il razzismo è una grande occasione di rilancio dei valori dell’olimpismo

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Lo sport e i suoi campioni hanno responsabilità sociali? Oppure possono astutamente nascondersi nella neutralità di un ambiente che per molti decenni si è autoisolato? Zlatan Ibrahimovic, centravanti del Milan, è una palla di cannone, un fisico d’acciaio forgiato nel ghetto di Rosengard, periferia di Malmoe, fuggito con il padre dalla guerra nei Balcani, cresciuto a pane, calcio e cemento. Ha quarant’anni, venti dei quali spesi nel calcio stellare, sempre più su, perché il pallone gli ha dato tutto: fama, riscatto, soldi. Una disciplina e un autocontrollo militare gli hanno insegnato a star zitto, a guardare soltanto la palla. In questi anni è risorto più volte.

E se intanto qualcosa nello sport incominciava a cambiare, a lui (e ad altri) non interessava. Il 2020 del lockdown è stato anche quello del Live Black Matter, le vite dei neri contano, le vite degli altri contano. Anche se per quelli come Ibra sembra contare solo la loro. Quando vieni dal ghetto non c’è granchè da scegliere, devi pensare a salvarti. E il microscopio del calcio gli è andato a pennello: non gli si chiedeva altro che giocare e di non distogliere lo sguardo dalla rete avversaria. E lui è un numero uno, il più forte. Così ha avuto sesso, sangue e soldi (cit. Giorgio Bocca), conquistati con sacrifici inumani.

E ora vagli a spiegare che lo sport è un grande fenomeno sociale, che i calciatori sono icone stellari, spesso loro malgrado. Un esempio di vita dentro e fuori dal campo, profili social nei quali molti ragazzi e tanta gente si specchia. E se proprio non riesci a guardarti intorno e a capire che un campione ha anche una funzione sociale, che ci sono battaglie come l’antirazzismo e i diritti civili per i quali vale la pena spendersi, che quello che ti succede fuori dal campo fa parte del gioco, se proprio non ci riesci, prova almeno a pensare che tu sei grande anche perché il calcio e lo sport sono grandi fenomeni multimediali e planetari. E qualcosa bisogna restituire: a volte basta solo allungare un po’ lo sguardo e vincere l’indifferenza.

Perché è grazie a quelle telecamere sparse dappertutto che il calcio continua ad essere miliardario anche in tempi di crisi nera, per lo sport e per l’economia. E’ grazie ai mille occhi e alle mille orecchie che ti ascoltano, ti scrutano e ti raccontano che sei salito così in alto. Tutto il mondo ha visto Ibra incornare Romeru Lukaku, centravanti dell’Inter, durante il derby di un mese fa, perso per 3 a 0 dalla sua squadra: “Chiama tua mamma, vai a fare i tuoi riti voodoo di merda, piccolo asino”, gli ha sibilato a brutto muso. Vicende di rancori mai rimossi e di procuratori, è stato scritto. Per carità, può darsi, ma allora perché prendersela con l’impegno antirazzista di LeBron James, icona della Nba americana di basket: “Mi piace, tanto è fenomenale quello che sta facendo, ma non mi piace quando la gente che ha un certo tipo di status fa politica allo stesso tempo”. Ibra è recidivo.

La cruna dell’ago da attraversare non è affatto facile, d’accordo. Ognuno la pensa a modo suo ma ritenere che la “politica” debba rimanere fuori dalla porta perché capace di sporcare l’immacolato olimpo dello sport, è sbagliato e pericoloso. La “politica” è tante cose e non va bene pigiare l’acceleratore del populismo per cercare consensi a vanvera, nello sport e nel suo isolazionismo. Non si possono intorbidire le acque con dichiarazioni ambigue: i giovani hanno bisogno di qualcosa in cui credere, da sempre. E lo sport ha il dovere etico di rispondere a tono, senza sorrisetti di sufficienza. I signori dello sport del Cio e dei Comitati olimpici nazionali lo sanno bene. L’olimpismo ha fatto politica nella sua storia, eccome. Con il ventennio fascista e nazista, con le Olimpiadi di Berlino nel 1936, con le epoche dei boicottaggi negli anni ’80 e con il potere di far svolgere i Giochi olimpici in Paesi di dubbia storia e matrice democratica. Democratizzare il Cio, farne un vero esempio di fair play, aprirlo alla partecipazione di personalità di impegno per i diritti umani sarebbe per il Comitato Olimpico una grande occasione di rilancio, sostiene i professor Patrick Clastres, Università di Losanna, uno dei massimi storici dello sport nel mondo.

E allora? La militanza per i diritti civili e contro il razzismo è una grande occasione di rilancio dei valori dell’olimpismo, che deve smettere di immaginarsi isolato dal resto della società, come un ordinamento giuridico parallelo. Non è un caso se quest’anno nel referendum della Gazzetta dello sport, lo sportivo dell’anno 2020 sia risultato Lewis Hamilton, il pilota di F1 che ha smosso tutto l’ambiente e per primo si è inginocchiato dopo la morte negli Usa di George Floyd, soffocato dal ginocchio di un poliziotto. Al secondo posto c’era proprio LeBron James: due campioni e icone della militanza antirazzista. Per quanto riguarda Romelu Lukaku, è stato il primo giocatore di serie A ad inginocchiarsi ricordando Floyd durante la partita con la Sampdoria, lo scorso giugno. Nel settembre 2019, dopo i cori razzisti durante Cagliari-Inter, scrisse: “Il calcio è un gioco amato da tutti e non dovremmo accettare alcuna forma di discriminazione che possa far vergognare il nostro sport. Parole precise e un appello ai suoi colleghi: “In quanto calciatori dobbiamo essere uniti e prendere una posizione su questa questione, per far sì che il calcio resti un gioco pulito e divertente per tutti”. Ibra , se ci sei, batti un colpo, perché uno è campione sempre o non lo è: hai il palcoscenico del Festival di Sanremo per farlo. E stavolta niente sorrisetti, please.


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