Governo europeista e atlantista. Anzi l’esecutivo è «convintamente» europeista e atlantista. Draghi colloca l’Italia saldamente integrata all’interno dell’Occidente: Unione Europea da una parte e Stati Uniti d’America dall’altra.
Il presidente del Consiglio è netto. Chiedendo la fiducia al Senato ha rilanciato «l’irreversibilità della scelta dell’euro». Ha indicato la strada della «prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata». Ha avvertito: «Non c’è sovranità nella solitudine».
È un vero “schiaffo” all’anima populista e sovranista del M5S e soprattutto della Lega, componenti essenziali del suo esecutivo di grande coalizione. È uno “schiaffo” soprattutto a Matteo Salvini. Il segretario della Lega ha combattuto battaglie infuocate contro le élite e la tecnocrazia europea, si è battuto per un referendum per dire addio all’euro. Salvini appoggia il governo tecnico-politico guidato dall’ex presidente della Banca centrale europea, ma mastica amaro.
A stento sembra frenare il suo dissenso. Non ha battuto le mani quando Draghi ha concluso il suo discorso programmatico al Senato. Poi ha lasciato trasparire l’irritazione a L’Aria che tira su La7: «Euro irreversibile? C’è solo la morte che è irreversibile». Lo spirito anti europeista è trattenuto a fatica dal “Capitano”. Ma non sembra mutato da quando, nell’ottobre 2018, fece un viaggio in Russia e commentò: «Io qui a Mosca mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no». E allora il segretario del Carroccio era vice premier e ministro dell’Interno nell’esecutivo Conte uno.
Sono trascorsi oltre due anni, tanta acqua è passata sotto i ponti. Luigi Di Maio dai bellicosi attacchi contro Draghi (nel 2018 lo accusò di «avvelenare il clima») e la Ue è diventato un sostenitore della Ue come la maggioranza dei cinquestelle. Nel Carroccio ha prevalso alla fine la linea europeista e atlantista di Giancarlo Giorgetti, grande estimatore di Draghi, adesso divenuto ministro dello Sviluppo economico. Ma Salvini resta tiepido verso l’europeismo e sembra coltivare ancora la linea populista-sovranista. Il movimentismo populista, che ha fatto decollare la Lega dal 3% dei voti nelle politiche del 2013 al 34% nelle europee del 2019, cova sotto la cenere. Certo adesso i sondaggi danno il Carroccio in netto calo di consensi ma resta sempre il maggiore partito italiano.
Mario Draghi va avanti su una strategia di governo europeista e riformista. Ha esposto un programma per la ricostruzione dell’Italia messa in ginocchio dal Covid: uno immediato per combattere l’emergenza sanitaria e occupazionale; uno di prospettiva d’incisive riforme (centrate su ambiente e innovazione digitale) per riportare il paese a uno stabile sviluppo economico e sociale. Ha sollecitato la concordia nazionale: «Oggi, l’unità non è un’opzione, l’unità è un dovere» basato sull’«amore per l’Italia».
La fiducia al governo europeista il 17 e 18 febbraio è passata a grande maggioranza in Parlamento, ma è scoppiato il dissenso soprattutto tra i pentastellati: 15 senatori e 16 deputati cinquestelle hanno votato no; alcuni senatori di Sinistra italiana non hanno votato sì. Il deputato leghista Vinci ha votato contro, ha lasciato il Carroccio ed ha aderito a Fratelli d’Italia.
Formalmente all’opposizione c’è solo Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia; ma lo scontento s’infiamma nei leghisti, nei grillini e nella sinistra. I primi contraccolpi sono immediati. C’è aria di scissione a cinquestelle. Il capo reggente del M5S Crimi ha annunciato l’estromissione dei dissidenti: «I 15 senatori che hanno votato no alla fiducia saranno espulsi».
Chissà se il presidente del Consiglio riuscirà a ricostruire l’Italia, chissà se il suo governo reggerà nell’impegno di far coesistere nel governo centro-sinistra, centro-destra e grillini. SuperMario è riuscito da presidente della Bce a salvare l’euro, ora l’attende un’impresa forse anche più difficile: impedire il naufragio dell’Italia.