Gli anniversari concomitanti della scomparsa di Luca Coscioni, quindici anni fa, e della scoperta dell’esistenza del Covid in Italia, un anno fa, con il ricovero di Mattia Maestri, il cosiddetto “paziente zero” di Codogno, ci inducono a riflettere sul senso della vita. O, per meglio dire, sulla sua fragilità.
Luca Coscioni venne sconfitto, a soli trentotto anni, da quella dannazione contemporanea che è la SLA, uno strazio indicibile che qualche mese dopo sarebbe entrato nelle nostre case attraverso la tragedia di Piergiorgio Welby. Welby, insieme a sua moglie Mina, scrisse una lettera al presidente Napolitano, ribadendo il suo amore per la vita ma anche il concetto, sacrosanto, secondo cui quello che stava subendo era un tormento non più sopportabile. Ne seguì una miriade di polemiche, con prese di posizioni strumentali e inni alla vita che altro non erano che espressioni di somma ipocrisia. Oggi il tema del fine vita ha compiuto passi avanti notevoli, anche se siamo ancora indietro rispetto ad altri paesi e, soprattutto, la cappa di ipocrisia è rimasta e si è fatta, se possibile, ancora più asfissiante, specie da quando sono venuti sostanzialmente meno i partiti e si è drammaticamente inaridita la politica.
Luca Coscioni, a differenza di Welby, se ne andò con meno clamore, senza rinunciare, a sua volta, a lottare strenuamente per i diritti dei malati e delle persone in difficoltà, senza lasciarsi travolgere dalle infinite sofferenze che dovete affrontare negli ultimi anni, senza piangersi addosso, aiutato nell’impresa soprattutto dalla moglie Maria Antonietta, sua erede nella lotta per una società più giusta e custode di un pensiero avanzato, progressista e del quale oggi avremmo più che mai bisogno.
Un anno fa, mentre eravamo immersi nelle nostre discussioni e in beghe politiciste che non meritano alcuna attenzione, la pandemia sconvolse le nostre esistenze e ci portò a contatto con il dolore della perdita, con la processione dei camion militari a Bergamo, con le immagini tremende di papa Francesco raccolto in preghiera in una piazza San Pietro deserta e Mattarella in visita all’Altare della Patria il 25 aprile; insomma, con la barbarie tangibile, i problemi veri, il dolore profondo, l’assenza, il silenzio, la perdita degli affetti, la compressione di libertà che davamo scioccamente per scontate e la fine di ogni certezza per entrare in una stagione incognita.
Due anniversari che inducono a riflettere, a guardarsi dentro e a fare i conti con noi stessi e con i nostri demoni.
Nei ruggenti anni della dissoluzione del pensiero e della scomparsa delle ideologie non ci eravamo mai resi conto di quanto potessimo essere deboli. Pensarci adesso è il miglior modo per riconquistare un minimo di umanità, cioè quei valori di cui forse abbiamo capito di non poter più fare a meno.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21