Addio a Peppino Rotunno, la luce di Fellini

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Era stato promosso sul campo, da un giorno all’altro, da operatore alla macchina a direttore della fotografia. Il titolare delle luci, conosciuto alla francese come G.R. Aldò (un veneto che si chiamava Aldo Graziati Rossano) era morto in un incidente automobilistico tra Padova e Venezia e la lavorazione rischiava di arenarsi pericolosamente. Luchino Visconti, che lo stimava e gli teneva gli occhi addosso, gli aveva chiesto: “Te la senti di prendere il suo posto?” E il giovane operatore, per quanto impaurito non si era sottratto, aveva portato onorevolmente a conclusione il film entrando per sempre nelle grazie del Conte di Modrone. Era il 1959 e Giuseppe Rotunno, a 36 anni, aveva firmato “Senso” con Alida Valli, uno dei capolavori del cinema italiano. Quando me lo raccontava sembrava ancora incredulo; aggiungendo per onestà: “Aldò era un maestro e da lui avevo imparato tutto lavorando al suo fianco”.

Aveva assimilato soprattutto la lezione più importante per quel ruolo così strategico nella confezione di un film: “Per quanto bravo puoi essere, il tuo talento è al servizio della storia e del regista; devi essere capace di accettare l’idea che il film non è tuo, tu sei soltanto lo strumento, magari anche sofisticatissimo, per tradurre tecnicamente nella maniera più fedele le intenzioni, le visioni, il gusto dell’autore. Solo così l’opera può veramente riuscire”.

Giuseppe Rotunno, Peppino per tutto il mondo del cinema, era il più grande; la qualità delle sue luci, negli anni in cui l’ho conosciuto e frequentato, tra il ’70 e il ’90 del secolo scorso, non aveva davvero paragoni; con riflettori, bandiere e velature, dipingeva il campo di ripresa come fosse una tela. Possedeva un intuito straordinario e amava infinitamente la pittura, anche attraverso la moglie Graziolina che era una valente pittrice naïf. Se con Visconti aveva realizzato dei capo d’opera, penso al bianco e nero di “Rocco e i suoi Fratelli”, infallibile, ma anche naturalmente al colore di “Il Gattopardo”, nella sua carriera aveva lasciato un’impronta indelebile in gran parte del cinema italiano, da De Sica a Monicelli, a Patroni Griffi a Wertmüller. Tuttavia lo sposalizio artistico, insuperabile, era avvenuto con Federico Fellini, nell’arco di venti anni di collaborazione, da “Toby Dammit” (1967) fino a “E la nave va”, e agli spot pubblicitari per la Banca di Roma (1990).

Dopo la crisi del Mastorna, alla fine degli anni Sessanta, e alla scomparsa di Gianni Venanzo, Fellini incontra in lui il compagno di strada con cui scalare le vette più alte della sua concezione luministica. Inizia per il regista la seconda stagione della piena maturità, che si impenna in capolavori senza precedenti: Satyricon, Roma, Amarcord, Casanova. Un arco di tre lustri che si conclude nel decennio successivo con Prova d’orchestra, La Città delle donne, E la nave va.

Ripercorrere quei film dal punto di vista figurativo e fotografico, per chi ama l’alchimia visiva che rende così affascinante il grande grande schermo, può rappresentare una scoperta in più per gustare l’appassionante artigianato della Settima Arte.

Iniziamo da Toby Dammit dove le esplicite dominanti di tono (la sequenza iniziale in automobile è tutta impregnata di porpora cardinalizia) consentono un audace taglio fotografico, espressionistico, che venne non a caso immediatamente saccheggiato senza freno dai creativi della pubblicità. L’impostazione pittorica – in questo caso certi influssi allucinati di William Blake, o del contemporaneo Francis Bacon – parla di una radice comune tra pittura e film d’arte; Kubrick procederà sullo stesso versante in Inghilterra, Kurosawa in Giappone, Bergman in Svezia.

Del Satyricon è impossibile dimenticare l’immaginifico impasto degli ocra, dei gialli, dei terra bruciata, dei sabbia, dei viola. In quelle campiture ferme, spietate, allucinate, di una arcaicità per nulla classica, per nulla consolatoria, veniva stravolta la annosa convenzione pompier dei film sull’antica Roma con tuniche e sandaloni (peplo movie).

In Amarcord la composizione dell’affresco chiede alla luce di ricreare lo sguardo infantile della prima conoscenza del mondo: l’impasto luce-colore è sempre fiabesco, o favoloso, da teatrino di un’infanzia ritrovata. Il deposito di memoria sepolto nel tempo trascorso, viene come perlustrato da una torcia magica che ne fa affiorare i contorni, ne rivela l’incanto alzando il sipario su un proscenio ancora palpitante. Si avverte in Fellini e Rotunno l’influenza dei post-impressionisti, Cézanne, Matisse, Marc Chagall e della grande venerazione dell’autore per gli immortali illustratori dell’infanzia, Carlo Chiostri, Adolfo Bongini, Attilio Mussino: quella stessa luce a pioggia, calme et volupté, da incantesimo, che rievoca Pinocchio, Jules Vernes, i libri di avventure.

In Roma il prodigio dell’affresco animato viene celebrato in una narrazione in cui l’amalgama cromatico è ottenuto principalmente dall’invenzione della luce. Le sequenze di via Albalonga, del Defilé Ecclesiastico, del Raccordo Anulare, – solo per citare alcune tra le più suggestive – alludono ai maestri della scuola romana, da Scipione a Mafai a Fausto Pirandello, ma anche a illustri disegnatori di rotocalchi come Attalo e Giuseppe Novello. La luce pittorica è intrinseca al racconto, strappa emozioni in proprio come non era mai accaduto in precedenza nel cinema. Nel breve episodio del bombardamento dello Scalo San Lorenzo, la sequenza è risolta interamente nello sgomento di una abbagliante macchia di luce riverberata dalle maioliche del sottopassaggio, e poi da un’ombra che correndo si allunga sul muro, inseguita dal lancinante ululato delle sirene.

In Casanova il dottissimo sincretismo figurativo spazia da Hogarth a Vermeer, da Canaletto a Watteau, da Fragonard al Guardi, al Longhi a Velasquez. Ci sono citazioni di dettaglio, ma è un’intera epoca che viene rivissuta nella luce dei suoi pittori. L’immagine sullo schermo possiede lo scintillio della seta, i grigi hanno la lucentezza del mercurio, i celesti suggeriscono l’algore di un lago ghiacciato, ogni sequenza mostra la tonalità persino geografica della sua matrice; il cielo di Venezia non è quello di Wurttemberg, né di Dresda, né di Londra o Parigi, ognuno di essi possiede la propria insostituibile peculiarità. La chiave visiva coincide con la medesima lettura concettuale: nel film non c’è mai il sole, e mai il cinema s’era permesso una visionarietà così abbandonata; l’elemento luce-materia è diventato simbolo e metafora: ciò che nei quadri è la sostanza oleosa dei tubetti, sullo schermo sono i teli di plastica nera che materiano un mare lampeggiato dalle saette di un cielo in tempesta.

Una delle sequenze più suggestive del film, l’incontro di Giacomo Casanova con l’anziana madre nel Teatro di Dresda, era stata girata alla luce di imponenti lampadari a candele, e sembra quasi di poter percepire l’odore stesso della cera.

Di Prova d’orchestra si ricorda il convulso, fosco, uniforme grigiore, l’aria spenta e brunita, il vortice della polvere bianca dei calcinacci. De La città delle donne ci rimangono negli occhi i verdi cupi, i viola, le immagini livide di angosce sotterranee o di elettrica, artificiale allegria. Per E la nave va torna alla mente l’educata eleganza dei preraffaelliti, o certa estenuata pittura del primo Novecento, l’esibizionistica sensualità di Boldini. È il trionfo delle mezze tinte, delle sublimi illustrazione di maniera, dei sapienti panneggi mondani, borghesemente intimisti, carezzevoli, un poco insinceri; le lusinghe equivoche dei ritrattisti, le levigate messe in posa, l’ultimo figurativismo prima che l’immagine vada in frantumi, in tanti pezzi cubisti, irrecuperabilmente.

Sul set Peppino era un signore, dai modi garbati, dalla voce sussurrata; gli bastava alzare un sopracciglio perché l’elettricista volasse al suo posto tra le capriate del teatro di posa; aveva con sé una squadra di fuoriclasse, silenziosi, rapidi, preparatissimi, in grado di anticipare ogni richiesta, di soddisfare ogni necessità, anche la più imprevista.

Per la sua altissima professionalità, Giuseppe Rotunno era molto amato dai registi americani e ha lavorato al fianco ad autori celeberrimi. La memoria corre a Bob Fosse che con il suo All that Jazz cercò, tra omaggio e ispirazione, di ricreare il suo personale 8 ½ . Ma il carnet si estende a nomi e titoli da storia del cinema: Stanley Kramer “L’ultima spiaggia” (On the Beach), Martin Ritt “Jovanka e le altre”, John Huston “La Bibbia” (The Bible: in the Beginning…), Stanley Kramer “Il segreto di Santa Vittoria” (The Secret of Santa Vittoria), Mike Nichols “Conoscenza carnale” (Carnal Knowledge), Fred Zinnemann, il meraviglioso “Cinque giorni una estate” (Five Days One Summer), Terry Gilliam “Le avventure del barone di Münchausen” (The Adventures of Baron Munchausen), Sydney Pollack “Sabrina” con Harrison Ford. E altri ancora.

La scomparsa di Peppino Rotunno chiude mestamente una stagione del nostro cinema che ha contribuito nobilmente alla gloria della Settima Arte.


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