“Vieni e vedi”, mi ha detto padre Modesto Todeschi, missionario saveriano. Ed io sono andato, con lui e con due colleghi, sulle colline attorno a Bujumbura, capitale del Burundi, in preda ad una guerra civile allora poco nota al mondo. Era il settembre del 1995 ed io ero giornalista freelance, animato da un desiderio irrefrenabile di spingere l’occhio oltre l’orizzonte e sospinto anche dal bisogno di lavorare.
Andare a vedere in quel tempo, in quel Paese della regione africana dei Grandi Laghi, significava rendersi conto con i propri occhi dell’agonia di un popolo, la cui vita quotidiana era “scandita dal terrore: massacri, villaggi bruciati, campi distrutti”, come ha poi titolato il quotidiano Avvenire il mio reportage “nella regione di Bujumbura dove militari tutsi e guerriglieri hutu si impegnano in sistematiche azioni di violenza”, pubblicato il 17 settembre 1995.
Potevano bastare le denunce dei missionari. Ma eravamo lì, in Burundi, e non andare avrebbe significato tradire il dovere morale per un giornalista di “mettersi in movimento, andare a vedere, stare con le persone, ascoltarle, raccogliere le suggestioni della realtà”, proprio come ha scritto Papa Francesco nel Messaggio per la 55esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. Non andare avrebbe significato anche rinunciare alla missione di “condividere” e quindi di dare seguito all’andare e vedere con un terzo verbo inscindibile dai primi due.
Il “condividere” di Francesco mi ha riportato alla richiesta di condivisione rivoltami da Bahaminyakamwe: è il nome di un giovane incontrato sempre in Burundi, nel settembre 1995. Dopo essere emerso come d’incanto dal nascondiglio della vegetazione per sfuggire alle razzie dei militari, mi ha detto: “La gente sa di noi? Intercedete per noi presso le altre nazioni”. Io ho scritto, lui non ha mai letto il mio reportage ed entrambi non abbiamo mai saputo se quell’articolo abbia prodotto effetti per la pace del suo popolo. Ma esserci, averlo ascoltato, aver incrociato il suo sguardo ha significato già molto per Bahaminyakamwe, il quale viveva come una sorta di condanna il significato del proprio nome in lingua kirundi: “Perseguitano quello che sono, il poveraccio”. E sempre secondo lui, lo stare lì comunque è stato importante per il desiderio di pace del popolo burundese, perché c’era un giornalista a raccogliere quell’appello.
“Andare a vedere” mi ha ricordato anche quando Lucio Brunelli, nel 2014, appena nominato direttore di TG2000, ha condiviso la proposta di partire per la Repubblica Centrafricana, il Paese nel cuore dell’Africa in sofferenza a causa di un conflitto che acuiva la povertà. “Lo schema ideologico della guerra di religione e dei cristiani perseguitati dall’islam (propagandato dai siti della destra cattolica) mal si applicava al conflitto centrafricano”, ha scritto lo stesso Lucio nel suo libro “Papa Francesco. Come l’ho conosciuto io” (Edizioni San Paolo, 2020). “Dietro i gruppi armati – si legge ancora nel volume che fa conoscere meglio Papa Bergoglio – più che la religione si scorgeva la longa manus di potenze straniere interessate allo sfruttamento delle grandi ricchezze del sottosuolo. Ma bisognava andarci, laggiù, per passarci del tempo, alloggiare non negli hotel ma nelle parrocchie e nelle missioni cattoliche per capirlo. Le missioni dei Carmelitani, dove facevano base Maurizio e la sua troupe, ad esempio, ospitavano migliaia di profughi, anche famiglie musulmane in fuga dalle violenze commesse dagli anti-balaka, che si definivano cristiani ma non esitavano a macchiarsi le mani del sangue dei propri avversari, gli odiati Seleka”.
Appunto, bisognava andarci. E così siamo andati. La prima volta sempre nel 2014. Poi altre cinque volte e ogni volta sotto la guida dei missionari carmelitani padre Aurelio Gazzera e padre Federico Trinchero. Mai avrei immaginato che un giorno Francesco potesse aprire l’Anno santo straordinario, il Giubileo della Misericordia, proprio nella Repubblica Centrafricana. Ma l’impensabile è successo il 29 novembre 2015.
Con questi ricordi, l’andare e vedere mi ha fatto riflettere anche sulla dinamicità del giornalismo rispetto alla staticità del lavoro da casa o dello “smart working”, che di smart ha rivelato ben poco durante l’emergenza coronavirus scattata nel marzo 2020. Più di qualcuno dice che è stata ed è ancora una necessità, una sicurezza. Ma, “senza mai uscire per strada, senza aprirsi all’incontro, si “rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni”, ha scritto il Papa nel messaggio.
Tra l’altro, la polvere degli angoli di casa e delle redazioni non ha lo stesso odore della polvere delle strade o di quella che si attacca alle scarpe. La polvere delle scarpe può essere anche residuo di fango rimasto sotto le suole, un fango che diventa memoria di un Paese attraversato e di una comunità incontrata lì dove vive.
Ne ho consumate di scarpe e ancora ne dovrò consumare. Un collega operatore mi diceva di fotografare tutte le scarpe rotte buttate nel mondo. Non l’ho mai voluto fare. Mi sembrava, a dir poco, non molto decoroso. Però ricordo alcune scarpe consumate, rotte, sfondate e buttate durante le trasferte. È successo in Angola, in Ecuador, nelle Filippine e in qualche altro Paese. Nell’arcipelago asiatico, i residui di un paio di scarpe sono rimasti nella turbolenta Isola di Mindanao, nell’Arakan Valley, dopo aver incontrato nel marzo 2014 la comunità tribale difesa fino alla morte da padre Fausto Tentorio. Il missionario del PIME è stato ucciso il 17 ottobre 2011 perché difendeva i diritti del popolo nativo a rimanere nella propria terra depredata da multinazionali straniere con la complicità di politici locali.
Nell’Arakan Valley, tutto parla ancora di padre Fausto, chiamato “Father Pops” dai tribali. Una fondazione porta il suo nome per continuare la formazione professionale e la scolarizzazione di tribali e contadini. Quel marzo di quasi 7 anni fa, la festa di una scuola su una collina nella memoria di padre Fausto ha fatto passare in secondo piano una pioggia torrenziale che ha reso impraticabile tutta l’area che non aveva mai conosciuto l’asfalto. Il rientro alla parrocchia della Madonna del Perpetuo Soccorso, affidata al PIME, è stata un’impresa. Lungo la discesa dalla collina, ad ogni passo si poteva affondare fino ai polpacci nella terra intrisa di acqua piovana. Per la comunità locale non era un disagio. Anzi, ad ogni affondo spesso scattava una risata. Al termine della giornata, ho decretato la fine delle scarpe indossate, ormai diventate dei blocchi di fango e usurate dopo diversi viaggi. Ma io le scarpe le avevo. Attorno a me, invece, molti piedi erano senza scarpe. Ho consumato anche tante camicie e pantaloni, ma non ricordo più dove.
“Andare laddove nessun va”, soddisfare “il desiderio di vedere” possono essere la conseguenza di “una curiosità, un’apertura, una passione”, ma per concretizzarle ci vogliono anche coraggio e impegno, ha riconosciuto Francesco citando “giornalisti, cineoperatori, montatori, registi che spesso lavorano correndo rischi” per documentare e denunciare persecuzioni delle minoranze, soprusi e ingiustizie contro i poveri e contro il creato, guerre dimenticate. Ma andare, vedere e condividere comporta altri sacrifici non sempre visibili a tutti. Può capitare, infatti, di partire con l’ansia e la paura dopo aver salutato moglie e figli come se fosse l’ultima volta. Può capitare anche il dramma della scelta tra il partire o il rimanere a casa con gli affetti familiari nonostante una moglie o un marito ti dica: “È il tuo mestiere, è il mestiere che hai scelto”. Ci sono poi colleghi o colleghe che trascorrono gran parte dell’anno in trasferta mettendo a rischio gli equilibri familiari e la crescita dei figli.
Gli spunti di riflessione su questo Messaggio per me sono veramente tanti. Dopo averlo letto mi sono accorto che è quasi tutto sottolineato. Alcuni passaggi hanno incoraggiato la mia professione iniziata con un articolo scritto nel marzo 1988. Altri hanno rievocato ricordi di comunità e persone incontrate proprio “dove e come sono”. Ma la gran parte delle sottolineature pian pano le riporterò sul mio taccuino affinché accompagnino il cammino da giornalista ancora da percorrere. Sì, un taccuino cartaceo lo porto sempre con me, perché è probabile che la tecnologia digitale non sia ancora arrivata in qualche angolo del mondo, dove nessuno va.