Nel dibattito che si sta scatenando con l’uscita della serie SanPa sulla piattaforma Netflix, chiedo di essere ascoltato come persona doppiamente informata sui fatti, privatamente e professionalmente.
E’ buona cosa quando un prodotto televisivo fa discutere in modo approfondito e argomentato, anche riaprendo vecchie polemiche su argomenti e problemi forse mai superati o risolti. Complimenti a chi ci ha lavorato, in particolare per la passione sincera senza pregiudizi che emerge dal racconto. Piuttosto, un rammarico preliminare. Amarezza di parte? Può darsi, ma la serie basa la sua ricostruzione su servizi, inchieste e immagini tratti in buona parte dalle teche Rai: mi dispiace dunque che un patrimonio culturale tanto insostituibile non sia stato valorizzato in primis dallo stesso servizio pubblico radio-televisivo. Ma anche questa è una vecchia ferita.
Ho ricordi vivi e forti del pellegrinaggio quasi quotidiano di giornalisti e telecamere verso la collina di Coriano in quella stagione durata quasi 10 anni.
Partivamo a turno dalla sede di Bologna: io, Marino Cancellari, Roberto Scardova, Stefano Tura. Bei tempi sì, professionalmente parlando, ma come sempre succede non lo sapevamo. Abbiamo avuto senz’altro una cosa in comune: anche sbagliando non abbiamo mai seguito alcun “suggerimento”: finchè siamo stati sul campo – so di poter parlare per tutti noi – ci muovevano solo il fiuto e la voglia sincera di capire e di raccontare. Lo dico subito per correttezza: dopo qualche mese di lavoro la convinzione prodotta da questa esperienza professionale e umana fu netta e radicata. Ora, a quasi trent’anni di distanza, la serie tv ha rafforzato quel sentire e in qualche modo l’ha confortato. Vale per me, ma credo – per quanto non ci siamo ancora confrontati – valga anche per gli altri di quel gruppo.
Una domanda aleggia costante nello scorrere delle cinque puntate SanPa, ricorrente e provocatoria: per amore o per un bene finale si può utilizzare la violenza? E quanta? La domanda non mi scuoteva allora né oggi, per di più se mi penso padre tormentato. La risposta non ha dubbi o sfumature. La risposta è no: non ci sono catene o vessazioni lecite per soffocare il diritto al libero arbitrio, che sia quello di fuggire da una comunità come quello di continuare a iniettarsi di tutto nelle vene. Dice bene a fine serie un ex ospite di San Patrignano oggi di professione educatore: “Tutto quello che ho visto a San Patrignano rappresenta per me il manuale di quello che non si deve fare nella maggior parte delle situazioni”.
La serie SanPa è talmente riuscita che dopo averla impostata come fulcro, ci obbliga ad interrogarci al di là della dicotomia Muccioli, ‘Salvatore o Criminale’. La narrazione così accattivante e divisiva ci chiede infatti di andare oltre e guardare con più attenzione ad aspetti non secondari e meno cinematografici.
Per anni noi pellegrini che salivamo alla collina di Coriano per raccogliere sul campo notizie e interviste ci siamo dovuti arrendere ad una richiesta mai esaudita dal “cerchio magico” della Comunità. Quanto persone ha fino ad oggi ospitato San Patrignano? Quante ne sono uscite e quante invece rientrate? Quante hanno deciso di non lasciare più la comunità? Qual è insomma l’indice di successo? Ci fu a parziale risposta solo la pubblicazione di una ricerca palesemente dubbia, ‘truccata’ come testimonia nella serie uno dei protagonisti di allora. Mi risulta che questi dati fossero negati anche ai servizi territoriali Ausl e alle forze dell’ordine, non solo a noi giornalisti. Ricordo che allora si diceva sì è vero è difficile uscire dalla droga, ma altrettanto difficile è uscire da San Patrignano. Perché ad una dipendenza certo terribile se ne andava a sostituire un’altra, basata non sulla consapevolezza di sé, sul principio di autodeterminazione e di adesione più o meno convinta ad un percorso terapeutico, ma su un sistema di regole coercitive, illusorie e a scadenza.
San Patrignano appariva – al di là dell’accoglienza e del recupero, dell’ultima spiaggia – come un sistema economico forte di lavoro, tanto lavoro, non pagato. Un sistema che ha goduto di una rete di appoggi e coperture politiche ai massimi livelli statali e che alla metà degli anni 90 raggiunse il massimo della potenza. La presidenza Rai di Letizia Moratti era la fanteria pesante. In un sol colpo sono nominati nuovi direttori e capo-redattori, assunti giornalisti mentre ne vengono stoppati altri troppo invadenti e segnalati come non graditi dai servizi informativi di SanPa. Sono dicevo persona informata sui fatti. L’obiettivo appare chiaro e preciso: condizionare l’informazione su San Patrignano ai tempi delle morti inquietanti (suicidi? omicidi?) intra moenia, attaccare le inchieste giudiziarie e i magistrati della Procura di Rimini, omaggiare incondizionatamente Vincenzo Muccioli e il suo miracolo. Sono fuochi artificiali a reti unificate quelli che partono dalla collina e illuminano la riviera romagnola. Passano in visita presidenti del consiglio, ministri, segretari dell’Onu, capi di Stato, alti prelati e campioni dello sport. Si tengono convegni, concorsi ippici, feste di ringraziamento, concerti e trasmissioni tv. Intanto giù in pianura la lotta contro l’eroina e le dipendenze prosegue senza clamore e senza fondi nelle decine di case famiglia, comunità di assistenza, camper mobili e servizi di prevenzione territoriali. Ma quasi nessuno ne parla.
La morte di Muccioli è una fine amara e triste per tutti, sia per chi lo aveva osteggiato e sia per chi l’aveva innalzato a mito. In particolare per una parte consistente della politica italiana che se ne servì per motivi di consenso fino al punto di farne un consigliere legislativo e proporlo come ministro, nomina che lui stesso rifiutò senza tentennamenti. Sembra il finale di una brutta sceneggiatura e invece è stato scritto dalle regole della comunità, basate sul segreto che spesso si trasforma in sospetto. Mai ufficialità per le cause della morte del Fondatore. Stress giudiziario: senz’altro ebbe la sua parte e non marginale. Ma quella malattia insinuante che approda finalmente alla Serie nelle parole di alcuni testimoni, anche in questo caso resta discosta, equivocabile. Il nome esteso nemmeno oggi si vuole pronunciarlo con decisione, quasi rimanesse quel “castigo di Dio” classificato allora e non il terrificante contagio che in quegli anni si portò via in tutto il mondo migliaia e migliaia di persone.
La comunità di San Patrignano è sopravvissuta al suo fondatore, i riflettori sulla collina si sono immediatamente spenti dopo il suo funerale, altre persone sono entrate per essere curate. Oggi non si accede più dopo lunghe file anche di giorni fuori dai cancelli, ma attraverso la segnalazione dei servizi pubblici sanitari e di altre associazioni. Quella macelleria è stata chiusa, i metodi coercitivi sono stati aboliti, chi vuole andarsene se ne va, si somministrano anche farmaci, ci sono medici e psicologi, l’ospedale contro le malattie infettive è un esempio di efficienza e professionalità.
Oggi ci sono mille ospiti perché una comunità con quasi 3 mila tossici è ingovernabile per chiunque. La percentuale denunciata di recupero è attorno al 70 per cento, la permanenza media è di tre anni. La signora Letizia Moratti anche dopo la scomparsa del marito Gian Marco avvenuta due anni fa continua a finanziare come sempre da ormai 40 anni la comunità oggi presieduta da Alessandro Rodino Dal Pozzo, che salì la collina nel lontano 1985.
Manderei un figlio a San Patrignano? Se ne avesse bisogno e fosse d’accordo non ci penserei un secondo.
Questi sono i titoli di coda perché la seconda serie di SanPa non ci sarà.