Spazi in contrapposizione. ‘Nomadland’ di Chloé Zhao, Leone d’Oro Mostra del Cinema di Venezia 2020

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Il film, tratto dall’omonimo libro di Jessica Bruder, è ambientato ad Empire (Nevada) nel 2011, quando chiuse lo stabilimento minerario che per 88 anni aveva dato lavoro a tutta la cittadinanza.

Fern, che ha perso lavoro, casa e anche marito, decide di acquistare un furgone e vivere alla giornata, lavorando saltuariamente e fermandosi dove preferisce. Per lei vivere in strada significa dimenticare la morte del marito, come se quei paesaggi e quei volti sempre nuovi le impedissero di soffrire. Nei cassettini del camper Fern non custodisce solo oggetti cari, ma anche la sua parte più intima e lacerata che non riesce ad esprimere verbalmente. Nella vita nomade ha trovato il suo equilibrio ed è emblematica la risposta ad una sua ex allieva, quando le chiede se sia diventata homeless: “Non homeless, houseless”.

La storia personale di Fern si interseca con quella corale di numerose persone che hanno deciso di fare una scelta di vita radicale. Sono soggettività fragili (anziani, disoccupati etc) che durante la crisi del 2008 hanno perso tutto e preferiscono vivere in modo ramingo e in armonia con l’ambiente, piuttosto che logorarsi di fatica e lavoro. E per loro è talmente importante la libertà e l’affermazione della propria individualità, da sopportare anche uno stile di vita duro, a causa del freddo, della scomodità e dell’alimentazione, che spesso consiste in cibo in scatola.

Questa sottile critica, che mette in discussione lo stile di vita capitalconsumistico degli USA, è percepita anche a livello formale attraverso l’organizzazione degli spazi che vede contrapposti quelli chiusi e circoscritti del camper a quelli immensi ed alienanti dei grandi magazzini e dello stabilimento Amazon. Ma in Nomadland non manca la speranza e l’intensità lirica degli sconfinati paesaggi americani (ispirata al cinema di Terrence Malick) diventa la risposta muta ai dilemmi di questi nomadi ricercatori.

Un altro aspetto significativo del film è il processo filmico di lavorazione, che in qualche modo ha mutato la stessa narrazione. Tutti i personaggi che vediamo, tranne naturalmente Frances McDormand e David Strathairn, non sono interpretati da attori professionisti ma da persone reali che hanno abbracciato quella filosofia di vita. La troupe infatti, in formato ridotto, ha vissuto per quattro mesi nei camper condividendo la loro quotidianità. Questa sinergia è evidente soprattutto nella scena ambientata nel campo in Arizona, organizzato da Bob Wells, una sorta di guru del van che gira video e tutorial per aiutare chi non ha esperienza. In quei giorni tutti vivono in una sorta di comunità utopistica fourierana che resiste alle contraddizioni della new economy. Una collettività dove la solidarietà, la comprensione, e l’armonia con l’ambiente sono i valori predominanti.

Nomadland, Leone d’Oro all’ultimo festival di Venezia, ha rappresentato una tappa significativa nella carriera di Frances McDormand che dopo Tre manifesti a Ebbing, Missouri, per il quale ha vinto l’Oscar, ha abbracciato generosamente questo progetto (con una giovane regista indie) in cui la sfida non era tanto recitare ma rimanere in ascolto e integrarsi in una dimensione molto differente dalla sua.


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