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Pornografia della povertà, sette motivi per dire no

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In questo periodo natalizio e di lockdown siamo continuamente bombardati da spot “umanitari”. Spesso però le onlus per colpire lo spettatore utilizzano immagini di pietismo e orrore, di persone, in particolare di bambini, in condizioni molto gravi. Queste immagini suscitano in noi dei sentimenti molto forti e.. danno un risultato migliore nella raccolta fondi. Deborah Small e Nicole Verrocchi dell’Università della Pennsylvania hanno dimostrato che le emozioni negative attivano una maggior predisposizione a donare (vedi grafico) e quindi sono più efficaci nel chiedere e ottenere soldi (il termine inglese “crowdfunding” è più elegante). Molte organizzazioni approfittano di questo aspetto e utilizzano spesso immagini che potremmo definire poco etiche e morali. Ci sono dentro quasi tutte: da Save the Children (la più spregiudicata a mio giudizio) a Medici Senza Frontiere, senza escludere Emergency e nemmeno l’istituzionale UNICEF. Questo tipo di immagini sono state definite come “pornografia della povertà” o “pornografia dello sviluppo”. Secondo Matt Collin con questo termine si intende «qualsiasi tipo di media, sia in forma scritta, fotografia o filmato, che sfrutta le condizioni dei poveri, al fine di generare la simpatia necessaria tra il pubblico per vendere più giornali, aumentare le donazioni o il sostegno a una data causa. La pornografia della povertà è tipicamente associata a persone di colore, di solito africani poveri e bambini, immagini o descrizioni di persone che soffrono, sono malnutrite o impotenti. Lo stereotipo della pornografia della povertà è il bambino africano con pancia gonfia, lo sguardo fisso verso la telecamera, in attesa di essere salvato». Vi invito a guardare le immagini alla fine di questo scritto e forse vi convincerete che questo tipo di campagne pubblicitarie vanno rifiutate e denunciate. Vi offro sette motivi (almeno) per farlo. 1. Viene violata la Carta di Treviso, un protocollo approvato nel 1990 dall’Ordine dei Giornalisti, dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana e dal Telefono Azzurro, che nell’aggiornamento del 1995 afferma che «nel caso di bambini malati, feriti o disabili, occorre porre particolare attenzione nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per divenire sfruttamento della persona». 2. Vengono violate le Linee guida per la Raccolta dei fondi (maggio 2010) prodotte dall’Agenzia per il Terzo Settore in cui si afferma che “nei materiali promozionali finalizzati alla raccolta di fondi, le organizzazioni devono (…) evitare l’uso di immagini e testi lesivi della dignità della persona, che potrebbero offendere anche solo una parte dei destinatari, (…) e discriminatori o denigratori in riferimento a razza, sesso, età, religione (…). Prudenza e attenzione nei casi di utilizzo di immagini forti e potenzialmente scioccanti”. 3. La violazione di pronunciamenti simili sarebbe lunga, ma bastano questi due esempi per condannare l’uso delle foto e dei video veicolati da molte onlus. Si spera, ma non è certo, che ci sia stato un consenso informato da parte dei genitori in ottemperanza alla privacy. Soprattutto bisognerebbe verificare se gli esercenti la potestà genitoriali dei minori esibiti avessero dato il nulla
osta in piena consapevolezza e senza condizionamenti ambientali. Difficile crederlo. 4. Probabilmente se le immagini riguardassero un bambino bianco le regole etiche verrebbero maggiormente rispettate. Invece il bambino dalla pelle nera viene visto e catalogato con criteri culturali ben radicati, che risalgono al colonialismo e al razzismo diffuso e che inducono automaticamente la nostra mente all’equazione: Africa vuol dire tutti poveri e disgraziati. Queste immagini consolidano quindi uno stereotipo invece di abbattere le barriere che si sono innalzate. 5. La continua somministrazione di queste immagini rischia al contrario di creare assuefazione (se non un vero e proprio rifiuto). Constatare che la situazione non è cambiata in così tanti anni può far
pensare che gli aiuti non arrivino e che le onlus non servano a nulla. Il blog Africa is a Country si occupa proprio del fatto che queste immagini non siano di aiuto all’eliminazione della povertà, anzi, la pornografia della povertà non farebbe altro che rafforzare uno stato di apatia nei paesi occidentali. 6. La corsa al video o all’immagine più sensazionalistica corrisponde esattamente alla logica del sistema pubblicitario di una società di mercato. Nel 2015 Mazzola e Trovato, con un memorabile editoriale sulla rivista Africa, criticarono ferocemente Save the Children per aver diffuso il video di un bambino denutrito (John, di due anni). Alle loro critiche l’onlus rispose che “lo spot ci ha consentito di acquisire più di 14.000 donatori regolari” Il fine giustifica i mezzi? Certo, se si entra nella logica di ottenere più soldi possibili in una società caratterizzata dal “capitalismo compassionevole”. 7. Per dovere di rendicontazione verso i propri finanziatori molte onlus si prendono meriti dei progressi fatti, anche se marginali. Le loro campagne consolidano la convinzione nell’opinione pubblica che gli aiuti umanitari abbiano un ruolo centrale nella sopravvivenza del terzo mondo e quindi che i paesi poveri dipendano proprio da queste sottoscrizioni caritatevoli. E’ un’idea fuorviante, sappiamo che non è così: altri sono i dati di fatto. Ad esempio il fatto che l’1% della popolazione mondiale possieda il 50% della ricchezza; il fatto che le spese militari, oltre a essere un pozzo senza fondo, contribuiscano a morte, devastazione, migrazioni e povertà; il fatto che il saccheggio ambientale provochi desertificazione dei territori e morte per fame; ebbene, questi fatti dovrebbero spingere l’opinione pubblica verso una diversa presa di coscienza, la richiesta presso i propri governi di cambiamenti radicali, in altre parole spingere tutte e tutti verso una mobilitazione politica contro la guerra, in difesa dell’ambiente e per un’ equa redistribuzione della ricchezza.

(a cura di Pierpaolo Brovedani, pediatra di Trieste)


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